Alla ricerca

Oggi è passato un anno dal tuo ultimo respiro.
Non scrivo per rimanere appiccicato alle vecchie lacrime, che si sono fatte resina e cercano di tenermi immobile. No. Sto andando avanti.
Lentamente la nebbia violacea della rabbia si sta diradando. Mi rendo conto della sua inutilità e vado avanti, facendo leva su quello che è rimasto. Sull’amore. Quel tuo incomprensibile, scellerato amore.
Certo, le domande tornano come la seconda onda dopo la risacca. E la terza, la quarta, la seicentomiliardesima. Perché la vita qua è fatta di domande e chissà se dall’altra parte ti danno le risposte.
Io ti cerco. Nel mio quotidiano, anche ora che spingo questi tasti e sono loro a portarmi, sono le parole che si formano da sole. Io sto solo a guardarle.
Così come rimango a fissare la tua lapide senza pensare. Arrivo, cambio i fiori, lavo il marmo e penso che forse un po’ di sassolini intorno ci stanno bene per fermare quelle erbacce che continuano a crescere.
Ma nel frattempo, tu dove sei? Il tuo corpo è finito sotto, come Atlantide, ma come Atlantide ne ha conservato la magnificenza. Quindi sei rimasta lì, o sei volata via?
Se mi sdraiassi sulla terra, tra i sassi, se potessi sciogliermi come acqua e penetrare nel terreno, cosa vedrei di te? Hai già lasciato i tuoi doni a questa terra, o c’è ancora un po’ di energia qua sotto?
Oppure attraversi le galassie e ne scegli una più comoda per stabilirti? Magari una fresca, che il caldo proprio non lo sopportavi.
E quando l’avrai trovata, potrò rintracciarti quando ti raggiungerò? Mi manderai la tua posizione, tu che non riuscivi a farlo con il cellulare, un po’ perché non ci vedevi bene e un po’ perché non ti andava di imparare?
Continuo a chiedermi ogni tanto: dove sei? C’è un po’ di te nel santino plastificato in custodia nel mio portafogli? C’è un po’ di te nell’album delle foto? Hai lasciato qualche mollica tipo Pollicino?
Spero di sì, altrimenti come ti trovo?
Ogni tanto i mostri si ribellano dentro di me e fanno baccano. Sei tu che li prendi a sculacciate, quando li sento che si calmano? Sei tu che sei arrivata nella stanza del mio Inquilino e l’hai messa in ordine e hai annientato ogni acaro della polvere perché se sono allergico io, probabilmente lo è anche l’Inquilino?
Continuo a cercarti e corro così veloce che rischio di bruciarmi a contatto con l’atmosfera e svanire anch’io.  Ti cerco così forte che a volte metto in dubbio che possa essere esistito un essere come te. Così diverso da tutto. Così introvabile. Mi viene il dubbio che io sia nato in un laboratorio e tu sia solo nella mia immaginazione. Un ricordo impiantato per dare un senso alla mia esistenza.
Forse l’unico modo per trovarti davvero è fermarsi. Respirare.
C’è un legame che può portare dall’altra parte, andata e ritorno. E così posso vederti. Tu, grande sabotatrice, tra le più testarde. Il mondo in una direzione e tu, ostinata e contraria. Ad urlare, sbracciare e continuare a ripetere: “Io so’ fatta così”. Tu che sei tornata, dopo la dipartita, e hai incendiato tutto.
Tu, resistente ai regimi e allergica all’indifferenza. Tu, a rompere gli schemi ed esasperare coloro che cercano la normalità.
Ed io, che ho cercato di cancellarti in vita e allora tu hai deciso di lasciar andare il corpo, così da tornare ancora più forte e sabotare tutti gli schemi e le previsioni che mi ero costruito.
Tu, con il tuo sacrificio, ad insegnarmi il sabotaggio e l’amore.
Tu, che come le torri di Atlantide ora squarci il silenzio dell’abisso.
Tu, che non hai bisogno di essere cercata.
Perché sei ovunque.

Mister F



Cenere e sabbia

I gioielli della zingara mi accecano di riflessi, mentre la clessidra sibila frettolosa.
La zingara prende la prima carta: << L’arrivista >>.
I suoi occhi mi fissano e cambiano colore. La guardo, capisco. Capisco di desiderare la vetta con troppa smania. Una corsa continua verso un miraggio che non ho la forza di distinguere dal reale. Ogni centimetro non percorso, un boccone di me dato in pasto all’ansia.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra continua a scorrere.
La zingara prende la seconda carta: << L’idrofobo >>.
Sento l’intestino rimpicciolirsi. Si contrae e si porta appresso il bacino e i muscoli della schiena. Vorrei rovesciare il tavolo, le carte, la sfera di cristallo e strappare a morsi i tendaggi che ho per tetto. Ma non cambierebbe nulla. Mi ritroverei rinsecchito di rabbia, pronto a spezzarmi alla prima folata di vento.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra continua a sussurrare.
La zingara prende la seconda carta: << Il vendicatore >>.
La vendetta è un piatto che va servito freddo, ma poi chi se lo mangia? E’ così freddo che non lo vuole neanche il cane. Non mi ricordo neanche perché ho iniziato ad odiare. Finirò sciolto nella mia stessa bile, scomparendo in uno sbuffo di fumo.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra è terminata.
Rimangono cenere e sabbia di una vita sprecata. Resto in silenzio e la zingara sorride. Il dente d’oro mi acceca insieme ai gioielli e ora vedo solo rosso. Ho sfidato me stesso e ho perso.
La guerra va affrontata con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza sulle spalle. A volte un respiro in più può salvarci l’anima. Di tutti i tesori che possiamo avere, il tempo è l’unico che non ammette errori. Usalo male e tu sarai la tua stessa rovina.
Un corpo troppo veloce a contatto con l’atmosfera, brucia ed evapora. Non ne rimane neanche il ricordo.
Non bruciarti. Piuttosto, brucia l’ostacolo e respirane la cenere, prima di proseguire.
La zingara ha parlato. Fossi in te, non le riderei in faccia.


Mister F




Quasi sorelle

Abbiamo rischiato di essere sorelle, non so se lo sai. Non avrei mai accettato una sorella con i capelli rossi, è giusto che tu lo sappia. Tuo padre mi piaceva, voglio dire, era un figo: capelli lunghi, orecchino. A mia madre sono sempre piaciuti i fighi, quelli hard rock. Come tuo padre. Sentivo sempre parlare di te, mi sentivo come se da un momento all'altro fossi dovuta entrare a far parte della mia vita. Era un tormento. Non mi andava per niente di diventare tua sorella visto che avevi quei capelli rossi. E, se non lo sai, a tuo padre già piacevo più di te: mi cantava sempre i Litfiba, e ci facevamo grandi risate quando era con noi. Lui e mia madre erano felici, e io ero felice perché mia madre rideva. Mia madre rideva sempre, anche quando era triste. Soprattutto quando era triste. Però sapevo che con tuo padre rideva davvero, non per nascondersi. Anche tuo padre aveva i capelli rossi, ma non era per quello che le piaceva. Le piaceva perché la faceva sentire viva. Ora che ho l'età di mia madre lo so, perché mi piace lo stesso tipo di uomo. Non ci si crede di quanto la abbia odiata e di quante cose brutte abbia cercato di farle per poi diventare esattamente come lei. Ironia della sorte. Ad un certo punto, all'improvviso, non ho più sentito parlare di te e ti ho dimenticata. L'odiata sorella con i capelli rossi: scomparsa. Non ero felice né triste, sei solo stata portata via dal flusso del tempo. Come tuo padre. Soppiantato da mio, di padre. Che in realtà era già lì quando è arrivato il tuo. Ma no, non ero gelosa perché io e mia madre abbiamo questa cosa che ci è sempre piaciuto essere felici, molto più che essere corrette. Perciò di ascoltare il rock con tuo padre mi stava bene e non mi sembrava di fare un torto al mio. Eri tu che non mi piacevi, con i capelli rossi e le lentiggini. Non c'era posto per un'altra bambina nella mia infanzia così affollata. Ora hai la mia età, o qualcosa di simile. E tuo padre sarà un inutile settantenne, come è mia madre. Siamo due donne figlie uniche che stavano per diventare sorelle, e una delle due forse nemmeno lo sa.

Chicana


Hamdulillah

Non mi ci sono mai sentita. Anzi, fino ad una certa età non ci ho mai pensato. A casa mia non se ne parlava e quindi a posto così. Avevo già abbastanza problemi: non piacevo a nessuno e mi tiravano le pietre. Sei diversa, dicevano. Anche se io mi vedevo uguale a loro. Siamo nati tutti a Roma, ho due gambe due mani due occhi, come voi. Non c'è stato verso, non li ho mai convinti. Poi una sera che me ne stavo a scrivere sui miei inutili quaderni, mia nonna entra con i suoi occhioni azzurri e mi racconta la storia di suo marito. Chi cazzo se l'era mai immaginata una storia come quella! Ecco a cosa ho pensato mentre salivo sull'aereo per Beirut. Ho pensato alla storia che mi ha raccontato mia nonna. Perché in fondo anche ora, che sono passati tanti anni, non mi ci sento. È stato solo quando sono atterrata, quando i soldati al check in mi hanno controllato i documenti; è stata la sera in cui mi hanno fatto mettere l'hijab che per un attimo, anche se poco, ho cominciato a sentirmici. Il Giornalista diceva You're so arabic. Mi piacciono gli uomini che parlano tante lingue quindi in mezzo secondo ero innamorata di lui per sempre - anche se adesso mi è già passata. Quando mi ha chiesto se fossi dalla parte di Hezbollah ho detto Certo, perché nessuna persona sana di mente potrebbe trovare qualcosa da eccepire. Shhh non dirlo ad alta voce, dicono i libanesi ma io ho l'arroganza delle donne occidentali e mi sento intoccabile, anche quando i soldati si lucidano il ferro (diciamo così). Questo vuol dire che non mi ci sento o avrei paura anche io. Invece vaffanculo, sono bianca, passaporto italiano - non mi faranno niente. Non ho mai davvero paura di morire, e a volte questo è il tuo peggior difetto, dice il Giornalista con cui per due ore siamo stati innamorati per sempre. Sei una coatta dell'Eur, dice perché è di Roma anche lui. Ma io non sono mai stata una coatta, tantomeno dell'Eur. Quelli che mi tiravano le pietre lo sanno bene, chiedete a loro. A vedermi così, con questo hijab in testa non si direbbe. Lebanon?, chiedono i libanesi per sapere se sono una di loro ma no, mi dispiace, non sono nemmeno una di voi. E allora perché Hezbollah? Perché sta dalla parte del popolo, perché lotta contro l'occidentalizzazione del Medioriente. Resistenza! Ah, e già che ci siete mettetevela nel culo la democrazia. Qui tutto profuma come ci si aspetti che profumi Beirut. Ci sono le strade e i palazzi un po' così. Così come? Così... come nell'Italia di Anna Magnani. Non siamo tanto diversi. Anzi, qui non sono diversa nemmeno io. Potrei addirittura dire che sono simile. Ma no, non sono libanese. Sono italiana - 100% italiana di Adalia. 100% Ayyıldiz ma tricolore. Fratelli d'Italia... com'era? Se dovessi scegliere tra musulmana e cristiana resto atea, anche se l'hijab mi sta un amore - due giri ed è subito terrorista. Il caldo è umido, i vestiti mi si incollano addosso, qui si fanno tutti le canne e scopano tra loro, maschi femmine, meno male che non ci sono i cani. You're not pansexual? Chi non lo è di questi tempi. Ma devo prima innamorarmi moltissimo, fosse anche per mezz'ora. I'm... Come diceva quel dottore? I'm promiscuous ma con mucho amor. Per una cosa come questa in Libano ti appendono al cappio, cerchiamo di non essere troppo internazionali almeno per strada. Che esagerazione, ormai dal 2014 non uccidono più neanche i collaborazionisti di Israele, al massimo vai in galera. La solita italiana bianca arrogante. Che buono il Libano, pieno di strade dove non c'è proprio nessuno che possa farti la morale. Forse prima che Israele si mangiasse la Palestina, magari quando i sunniti di Hussein avevano il controllo dell'Iraq, quando la Mezzaluna fertile non aveva conosciuto la piaga della liberté egalité fraternité. Ma adesso, strade vuote, angoli dimenticati, posti dove si può andare quando ci si vuole perdere. Poi il centro ok, tutti sti turisti che vengono a vedere quanto è esotico essere messi in ginocchio dal resto del mondo.

Chicana

Feedback

Un giorno mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >> E mi resi conto che non lo sapevo bene neanche io.
Allora decisi di entrare.
Chiusi gli occhi e di fronte a me c’era una porta di legno piena di graffi. Era socchiusa, quasi un invito ad entrare.
Mossi i primi passi ma sentii subito gli scricchiolii. Il pavimento era di vetro. Allora avanzai in punta di piedi, le dita erano gocce di pioggia sui tasti di un Hammond. Piccole lucciole mi saettavano intorno, confondendomi con il loro scampanellio. Dispettosi, sogghignanti, volavano veloci e non c’era verso di prenderli.
Le pareti di pietra erano immense e umide, un manto di condensa spalmato sopra. La luce entrava da piccole fessure e cambiava direzione per non dare punti di riferimento. Poi simultaneamente le vidi, dita di luce puntate tutte su di me. L’intruso era stato riconosciuto.
Una voce sibilava alle mie spalle, invitandomi a sottopormi a giudizio. Davanti a me un solco sbilenco nel vetro tracciava un confine. Ai lati, migliaia di corpi nudi in attesa di verdetto.
<< Cosa aspetti di vedere? >> chiese la voce.
<< Bene e male >> risposi.
Un urlo entrò nelle orecchie come una lama. L’uomo cieco era arrivato. La testa era completamente fasciata di bianco e lì dove avrebbero dovuto essere gli occhi c’era una scia di sangue rosso, così scuro da apparire nero a volte. Aveva in mano una pistola e sparava a caso. Le pallottole trapassavano corpi a destra e a sinistra del confine. L’uomo cieco sparava a caso e buoni e cattivi morivano insieme. Le pallottole scivolavano sulla condensa o si conficcavano nella pietra. L’uomo cieco urlava e non la smetteva di sparare. Aveva munizioni infinite e un dito instancabile.
<< Che tu sia stato buono o cattivo, credo ti convenga abbassare la testa >> disse la voce.
I proiettili fischiavano come falchi in picchiata. Ero accucciato a terra, con le mani sulle orecchie e non capivo. Non capivo il perché. Cercavo una risposta, ma non la trovavo.
Allora arrivarono i lamenti. I corpi erano trafitti e le anime abbandonali gridavano vendetta, ululavano verso coni di luce argentea.  La luna cercava di entrare ma non aveva il permesso.
La temperatura si alzò all’improvviso e ogni lamento divenne un grido. La rabbia esplose  e lasciò crepe sulle pareti. Il vetro andrò in frantumi e rimanemmo sospesi in un vento di ira. Il ciclone si era formato e faceva da veicolo per le grida disperate. Il cielo si andava smontando e l’Inferno cercava di sprofondare ancora più giù, pur di non sentire tutto quel baccano. Le pallottole vagavano e facevano filotti di buoni e cattivi. Onesti, imbroglioni, gelosi, altruisti, empatici e psicopatici accumunati dalla stessa forma di carne che veniva traforata dal piombo.
La conta dei morti saliva e così quella delle anime ululanti e alla fine rimasi solo contro un esercito di spiriti. Ognuno di loro aveva cercato la sua giustizia e ognuno di loro aveva fallito.
Rimanevo solo io adesso. Io che pensavo ci fosse giusto e sbagliato, bene e male. Io che avevo commesso il più grande dei peccati, ora ero la vittima sacrificale del grande circo dell’umanità.
L’uomo ceco scappò nel buio, urlando e sparando.
Il giudizio universale era iniziato e i tamburi di ingresso battevano come dannati. I miei timpani si aprirono come petunie e ora era il giunto del confronto. Finalmente capii chi avevo di fronte. Tutte le versioni possibili di me. Le infinite combinazioni si erano radunate e sacrificate per l’uomo cieco, cavaliere della casualità. Le cose posso andare in un solo modo, le alternative soccombono. Il caso uccide tutte la chance, meno una. Ma lì dentro, in quella grotta ora squarciata e illuminata da una luna spietata, si contorcevano tutte le mie versioni alternative nate dai pensieri inutili del quotidiano. Erano frutti di quel cancro chiamato preoccupazione. La mia mente intrappolata in un loop di pensieri aveva generato ogni possibile singolarità. Ed ora tutte erano pronte ad attraversarmi. Sentii venti gelidi e bollenti alternarsi, al passaggio delle anime ingorde. Le voci erano milioni e parlavano senza sosta.
Ogni diramazione del destino generata da ogni scelta della mia vita mi stava trapassando da parte a parte. Era un mormorio inarrestabile e giunto nell’apice del suo piacere sadico si permise di aggiungere una punta di compassione.

Povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me

La rabbia, motore di ogni sentore umano, vera forza origine dell’universo, accelerava il ritmo e ogni spirito era una freccia infallibile. Non era dolore ciò che provavo, ma una fitta di impotenza ad ogni passaggio. Più veloce. Più veloce. Sempre più veloce.

Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui

Silenzio

Gocce di mercurio mi cadevano in testa, nel silenzio assordante che lascia quel biiiiiiiip inconfondibile quando esci da un delirio di decibel. Tornarono le lucciole – dove erano finite – ma solo per ridere di me. I risolini divennero ghigni, poi starnazzi e le risate di corpo ora erano grida sadiche e tornò la voce del cieco – solo la voce – a sconquassare le pareti di pietra che crollavano sfiorandomi le braccia. Tutto era pronto al collasso sotto le grida della rabbia universale che nasce dalla ricerca di un senso che non c’è mai stato e mai ci sarà.
Lo spazio si distorse per un attimo e subito dopo sentii un branco di cavalli avvicinarsi al galoppo. Quando la luna decise di mostrarli, vidi stalloni giganti con gli occhi rossi, il pelo come petrolio e la bava tra i denti. Avevano zoccoli grossi come macigni e al loro passaggio la demolizione fu totale.

Mi travolsero.

Tutto esplose in un trionfo di sfoghi e quando il tocco finale della campana riportò tutto alla calma, mi resi conto che intorno a me non c’era più nulla, se non un senso di deliziosa e immotivata pace.

Qualche giorno dopo mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >>
Ci pensai un attimo, e sorrisi.

Mister F



Sempre di guardia

A Gaza i soldati israeliani hanno ricevuto l'ordine di gambizzare i giornalisti (sparargli ok ma alle gambe, senza ucciderli... sai, per i diritti umani sennò poi l'opinione pubblica rompe il cazzo). Hanno fatto così ma in 3 sono morti lo stesso. 600 feriti. Che sapevano che sarebbero morti e feriti, perché erano stati avvisati, Se il venerdì fino al giorno del Nekba farete questa marcia verrete uccisi e feriti. Ma loro sono andati lo stesso, anche le donne e i bambini. Cazzi loro. Poi non vengano a piangere in tv. Ah, già, da loro le tv nn ci vanno. Piangono solo gli ebrei in tv. Ancora per la Shoah? Avoja. Comunque poi hanno tolto l'elettricità e rallentato internet così nemmeno i messaggi a noi, ai loro amici, potevano mandare. Non potevano dirci Abbiamo paura. E nemmeno Ci stanno sterminando. Non potevano dire Sionisti di merda perché è antisemitismo e non potevano dire che quella è casa loro perché c'è subito qualche professore buonista che dalla scrivania sentenzia sul bene e sul male, mentre loro piangono e gli scoppiano le tibie e continuano a svenire perché i gas lanciati sulla folla non sono proprio del tutto quelli legali che si dovrebbero usare in questi casi. Niente, non si può dire. What happens in Gaza, stays in Gaza... non era così? Cancelliamo i palestinesi dalla faccia della terra, facciamo che sono solo un brutto sogno. Mentre voi dormite, io sto sveglia per ricordarli. E così farete voi quando dormirò io. Facciamo in modo che qualcuno resti sempre di guardia per evitare che al risveglio ci abbiano tolto tutto, anche la voglia di vivere.

Chicana


Carta canta

Ehi, mi senti? Sono qui. Quaggiù, nel tuo portafoglio. Pensavi non potessi parlare? Invece parlo, sei stato tu a darmi potere di parola. In realtà, mi hai dato tutti i poteri. Il giorno in cui mi hai creato, il tuo ridicolo inconscio già accendeva in te il desiderio di farti dominare. Davanti a te la realtà era troppo grande e incerta e ti serviva qualcosa a cui aggrapparti. Qualcosa in cui rifugiarti, piccolo e nudo com’eri. Hai inventato gli dei, ma quelli sono impalpabili. Non puoi vederli, non puoi toccarli. Non ti bastava alzare gli occhi al cielo per chiedere a qualcun altro il da farsi. Non ti bastava unire le mani in preghiera per scaricare le tue responsabilità verso qualcosa di più potente, di inappellabile. Allora hai creato me, che sono concreto. Che posso essere toccato, accarezzo, baciato. Mi hai dato il potere di poterti dare qualsiasi cosa, purché tu faccia di tutto per avere me. E’ buffo. E’ spassoso.
Non si poteva andare avanti con il baratto, serviva un valore di scambio comune per tutti.
Hai ragione, bravo. Hai studiato economia. Bravissimo. Hai capito che tutto verte su di me. Grazie a me, la tua vita oggi può avere un senso. Con me puoi comprare da mangiare, da bere. Con me puoi comprare utensili e accessori per vivere più comodo. Con me puoi comprare un tetto per ripararti dal freddo, dalle intemperie e da quelli come te. Con me puoi avere un motore sotto il culo che ti spinga a tutta velocità dalla casa al lavoro, dal lavoro alla casa. Con me puoi andare in giro, puoi avere un’identità. Con me puoi anche cambiarla l’identità, se vuoi. Con me puoi comprare il rispetto, la dignità, l’onore. Con me puoi comprare la volontà degli altri. Con me puoi comprare il corpo di un’altra persona. Con me puoi godere. Con me puoi comprare i sogni, la libertà, l’amore. Con me puoi avere tutto. Ma prima devi avermi. E allora corri, sgobba, sbrigati, testa bassa e produci.
Produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci
Più produci, più mi avrai. Più mi avrai, più a lungo potrai vivere per produrre. Perché con me puoi comprare quella salute che perdi per avermi. E’ buffo. E’ spassoso.
Non puoi più farne a meno. Io decido le sorti del mondo, chi sta sopra e chi sta sotto, chi vive e chi muore. Io parlo ai popoli, alle masse, raccolgo tutti i loro sogni in uno. Io sono il sogno, l’unica via. Avevi creato tanti dei, poi per pigrizia li hai riuniti tutti in me. Non avrai altro dio all’infuori di me. Sono uno, trino e quat-trino. Mistero della fede. Per me lavorerai, sputerai sangue, urlerai, lotterai, ucciderai.
Tu mi hai dato la vita e la parola. Grazie a te, oggi posso toglierti entrambe.
Quindi testa bassa e produci.
P r o d u c i .

Mister F



Fine turno

Notte di lucciole e cingiali
Alla stazione
puzzo di vomito
gasolio
e suoni di sirene.

Sono ormai schiacciato
Dal torpore
Fermo, indomito
Da solo
E muoio in belvedere.

Aspiro a denti stretti
Fumo nevrotico alla gola
Ascolto forti i loro rutti
Nel petto il sangue mi consola

Rompono le mie ossa
Come bottiglie di vetro
C’è solo rabbia, senza fossa
Per questo povero e inutile negro.

Fade




Serie e composte riflessioni sul momento del trapasso

Ho sempre immaginato come me ne sarei andato. Come sarebbe stato il mio estremo saluto a questa cazzo di sfera ricoperta di merda fumante che chiamiamo mondo. Insomma, la mia uscita di scena. C’è chi se ne va nella rabbia, chi in silenzio. Chi si annuncia con garbo e chi invece non se ne vorrebbe andare mai.
Io penso che arrivato al capolinea, quando finalmente sarò pronto per spogliarmi di questa vita scomoda che mi sta sempre stretta – soprattutto il cavallo che ogni tanto mi schiaccio una palla e tiro giù un santo a caso – sarò pronto a dare sfogo a quello che è rimasto di me.
E allora me la vedo, laggiù, la bara. Semplice, senza fronzoli che non ne vale la pena spendere tutti quei soldi. Me le vedo, le faccio rigate dal pianto di coccodrillo. Quelli che soffriranno veramente li riconoscerete perché non piangeranno. Coveranno tutto dentro, come faccio io. Terranno gli occhi su di me senza voler incrociare quelli degli altri. Mi faranno entrare in una chiesa – rischiando di farla crollare – e il prete dirà tante cose carine su di me, lui che mi ha conosciuto solo da morto. Chissà quanto può raccontarti un cadavere, padre.
Poi arriverà la benedizione e lì finalmente partirà lo scherzo finale. L’ultima burla di questa buffonata che chiamiamo vita. Si aprirà una crepa sul pavimento, la mia salma verrà inghiottita e subito dopo riemergerà, sorretta da quattro gorilla in smoking. Getti di fumo riempiranno le navate e la gente comincerà ad tossire. I vecchi stireranno le zampe e gli altri assisteranno alla mia gloria personale. Uomini e donne nude correranno intorno al feretro urlando frasi sconnesse. Partirà l’orgia del secolo donne con uomini donne con donne uomini con uomini e tutti si strapperanno le vesti perché capiranno che tutte le fatiche di una vita avranno il suono e l’odore della scorreggia di un cane quando ce ne andremo. Fontane di luce di tutti i colori bucheranno il soffitto e il cielo sarà di tutti i colori possibili. Non sarà un tenero arcobaleno ma una serie di orgasmi di vernice che schizzeranno come geyser strafatti di crack.
Poi arriveranno le cannonate. Un esercito infinito di bocche da fuoco annunceranno che quel coglione di Mister F ha tirato le cuoia e la vita passa via come un sorso di birra calda che lo sputi per terra e getti la bottiglia nella campana del vetro. Non perché vuoi fare la raccolta differenziata ma perché ti piace il rumore del vetro che va in frantumi. Accumuleremo vetro su vetro e tutto andrà in frantumi quando la stupida rincorsa della vita si schianterà contro un muro con sopra scritto GAME OVER – GRAZIE PER AVER GIOCATO.
I cannoni saranno sempre più veloci e violenti e vi saluterò con un tripudio di peti e polvere da sparo. Il cielo verrà oscurato dal fumo scintillante di mille colori e le stelle guarderanno con sdegno orde di esseri umani nudi e ubriachi che urleranno il nome degli dei pagani per avere una benedizione falsa come una banconota da ventisette euro.
La chiesta, il sagrato, il quartiere, la città salteranno in aria e mentre i leoni faranno sesso con gli agnelli, l’eco della mia risata tuonerà tra le macchine in coda, le file alla posta, le proteste degli onesti e le pretese dei figli di puttana.
L’ultima fiammata dei cannoni brucerà il velo dell’ipocrisia e tutto si rivelerà per quello che è: una ridicola messa in scena. Dove spetterà al defunto la battuta finale.
CI VEDIAMO DI LA’, TESTE DI CAZZO.

Mister F


Why Aye Man

Partì da un luogo imprecisato del mondo. Talmente confuso tra i pensieri che non se lo ricorda più.
Andò in Francia, a mangiare baguette e bere vino. Imparò ad avere quell’aria da saccente parigino e cominciò a scrivere poesie etiliche. Si perse tra torrenti di vino rosso e sogni pieni di signorine che ballano il can can. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad un francese dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Allora se ne andò in Inghilterra. La mattina scaricava casse al porto di Londra, scatarrando in acqua e bestemmiando come un italiano. Il pomeriggio vedeva il rugby, urlava e beveva birra fino a stare male. Litigava con il cielo che era sempre grigio e non voleva dargli mai una gioia. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad un inglese dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Allora se ne andò in Spagna. Si svegliava alle dieci e cenava alle ventidue. La notte e il giorno si mescolavano e la corrida era una cosa orribile. Un matador sbagliò il colpo di grazia e il toro cominciò a vomitare sangue viola come la sangria. Fece sesso a ripetizione, come se dovesse infrangere un record. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad uno spagnolo dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Allora se ne andò in Ungheria. Imparò a suonare il violino nei ristoranti e a rifiutare gli inviti delle ragazze che vogliono bere con te in quei pub sotterranei dove non esci con le tue gambe. Divenne un grande artista di strada ma quelli del posto non erano d’accordo e il loro dissenso aveva il sapore del sangue pisto in bocca, dopo una serata di destri e sinistri. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad un ungherese dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Allora se ne andò in Italia. Imparò a cucinare come si deve e si ubriacò di cultura sepolta. Poi vide i discendenti di Moravia, Svevo e Calvino cominciare le frasi con “se io sarei” e gli venne voglia di bestemmiare come un inglese. Vide la guerra tra poveri, il traffico, i fornai vuoti e le file davanti al supermercato per l’ultimo modello di smartphone. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad un italiano dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Allora se ne andò in Germania. Imparò a costruire e a mangiare crauti. Si sentiva al centro dell’Europa e tutti dovevano rispettarlo, ma poi pensò che c’era uno che la pensava così e ha messo a ferro e fuoco tutto quanto e ha gettato le persone nei forni e nelle camere a gas. Alla fine, non trovò un senso in quello che faceva. Si rivolse ad un tedesco dicendo “Forse questa non è la mia terra”. Si sentì rispondere “Why Aye Man”.
Ad un tratto si fermò. Era stanco, saturo di luoghi comuni e gli mancava la sua terra natia, anche se non se la ricordava. Allora se la immaginò. Al posto del deserto mise un fiume, al posto dei palazzi semidistrutti mise dei casolari con gli orti e le fattorie. Al posto dei carrarmati mise carrozze guidati da tizi gobbi e taciturni. Al posto delle bombe, fece piovere sulla sua terra una pioggia che sapeva di fragola e lampone.
Poi si rese conto di aver esagerato con l’immaginazione e pensò “forse questo non è il mio mondo”. Le bombe fischiarono nella sua testa e gli risposero “Why Aye Man”.

Mister F



A Yaser



Yaser è morto a Gaza. Ucciso dall'esercito di occupazione sionista. Ed era un amico di Chicana, la nostra scrittrice. Chicana ha scritto questo post per lui, e per tutti noi.
Per la prima volta nella storia di Radio Sabotag, un post non verrà accompagnato dalla musica. Ci sarà solo silenzio
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《Quando ti avvicini, mi metti l'hijab sulla testa Così è più sicuro. All'entrata dell'appartamento: passaporto italiano mi guardano gli occhi - Bugiarda ma puoi passare. Ti cammino dietro e non diciamo una parola, nessun corridoio mi è mai sembrato così lungo, il soldato alle nostre spalle ci intimidisce con il fucile: sorrisino, ammiccamento. In fondo sono tutti uguali. La stanza è piena di gente con la tosse, stanno seduti con la kefia al collo e la sigaretta sull'orecchio con tutta la vita in un borsone e dicono Ci stanno sterminando. La morale buonista gli fa a pezzi le case e gli ammazza i genitori, ma chi sono? Quello con gli occhi neri e l'orecchino, lo vedi? Ha 31 anni e ha recitato in un film, una cosa da niente, però chissà magari un giorno. Dai, togli l'hijab. Ci sediamo, gli altri fanno posto: voi vi baciate. Tu e lui, mezzo metro di lingua e due erezioni. Vuoi fumare? Il mondo fa sempre più paura, non c'è pace da queste parti, con queste facce, il sesso tra due uomini neanche a parlarne. Come glielo spieghi che noi amiamo tutti? Anche questo è un talento. Il nostro. Il narghilé dice: tieni la mente molto molto molto aperta. Soprattutto quando andiamo al campo, portiamo le medicine. Ma lei non può venire. Io? La maggior parte di queste persone è islamica quindi le donne no: lo dicono i marinai. Metti l'hijab altrimenti è impossibile camminare per strada senza che ti violentino, non basteranno dieci di noi a difenderti, e te lo saresti pure meritato. Dicono. Prendo le borse con gli antipiretici, pesano, mi fa male la spalla, la strada è lunga e piena di sassi, i miei piedi non hanno mai sopportato bene le scarpe. I soldati guardano, ogni occhio è una promessa o una minaccia, non gli sfugge niente (o sì?). La gente non si fida, hanno bisogno ma non d'affetto, gli dico che ho avuto fame anche io ma loro vogliono lenzuola pulite, preservativi, visita ginecologica una volta al mese. Fanculo la tua amicizia da quattro soldi - che presuntuosa! Mi siedo, sono come voi. No, sei bianca. Nessuno ti spara per il tuo colore - però a Las Vegas il croupier diceva Niente italiani, italiani mafia. Non è la stessa cosa. Tu fai foto dappertutto, anche appeso agli alberi perché sei bello come loro. A questa gente non frega della mia faccia, se mi sono depilata, se ho lavato i denti. Vogliono i documenti per la Francia o la Danimarca, attaccati al cazzo tu e l'esistenzialismo. Vogliono una casa e il cellulare, arrivare a domani, pagare le tasse o decidere di evaderle. Fanno così con le mani come a dire Che offri? Ho portato la mia opinione sulla giustizia sociale e le leggi razziali. Brava, mettitela nel culo. Sono anche informata sulla storia e la politica estera dell'Occidente. Si mangia? No. Venite a casa mia, raccontatemi di voi. Non sanno che dirmi, mi sembra lo zoo: io li guardo che mi guardano e dico Ecco le mie noccioline, amo gli animali. Come sono evoluta, un pokemon di terzo livello. Non sai niente di te finché non sei stato con qualcuno che ha perso tutto, quando i tuoi "io quella volta" hanno smesso di avere senso e fanno solo ridere, in confronto. Quando da tre giorni non hai acqua e non puoi lavarti ma soprattutto non puoi bere, quando la luce è solo quella del sole perché l'elettricità non l'hanno ancora concessa. Se hai fatto la brava forse te la portano a Natale.》

Chicana

Atocha

Il perimetro e le pareti sono azzurre. Un mare duro come la realtà, che ride in faccia alle promesse. Dall’alto dicono che avrebbero difeso la vita, quaggiù invece l’hanno persa. In tanti. Puoi fare l’appello, se vuoi. Ci sono nomi e cognomi, tra le due porte di ingresso. Puoi fare l’appello, tanto non ti risponde nessuno. Sono saltati in aria insieme alle parole che escono dalle bocche blasonate, le stesse che mangiano grazie ai soldi degli sceicchi. Quelli che poi le bombe le danno ai cani sciolti, che poi a loro volta le vanno a mettere sui treni e il cerchio si chiude. Boom. Arrivederci a mai più.
Al centro c’è una cupola di tela, piena di dediche fatte da chi l’orrore probabilmente non l’ha mai visto, se non dietro a uno schermo. La tela ha due strappi, uno in cima e l’altro laterale. I vetri che dividono la stanza azzurra dal corridoio dove passano i vivi sono curvi, bombati. Come se ci fosse una forza che preme da dentro. Ci sono anche un paio di crepe sul pavimento, appena entri. Sembra che ogni giorno in quella stanza le esplosioni si ripetano, ma rimangano circoscritte. Come se si potesse contenere il male. Costruire un’incubatrice dove isolare la morte. Così al di fuori la gente può continuare a vivere, senza aver paura di ritrovarsi spalmata su un cartello che dice “Dirección Hospital Infanta Sofía”.
Lì dentro, nel silenzio, è quasi impercettibile l’eco delle urla di Marzo. La cupola regala i rumori della superficie. Lassù, la vita prosegue. Le automobili passano e la gente torna a casa, davanti alle televisioni, dove quelli in giacca e cravatta dicono che sconfiggeranno i cattivi con i turbanti in testa. Poi però, quando la telecamera è spenta, il cattivo con il turbante stacca un bel assegno.
Gli affari vanno una bomba. Mentre la gente, quaggiù, se muere.

Mister F


Dazio di sangue

Sembra che non possa esserci serenità senza mediocrità. L’unico modo per tirare un sospiro di sollievo sta nell’adagiarsi su un letto di letame chiamato ordinarietà. Siamo in una gabbi di filo spinato e chi cerca di uscire per scoprire cosa c’è al di là del ferro è destinato a sanguinare. Nessuna ora d’aria, il premio per buona condotta consiste in una cella più comoda. Dentro c’è tutto ciò che serve, dunque perché uscire? Perché voler essere di più?
C’è una voce che mi dice che da lontano si vede meglio. Ti accorgi di cose che non puoi notare quando hai il naso schiacciato sul vetro. E allora via, allontanati da tutto, vedrai che bella prospettiva laggiù. Ma per arrivarci, devo attraversare il recinto. Devo pagare il mio tributo di sangue. I mediocri lo vogliono, fino all’ultima goccia. Volete il mio sangue? Lo avrete.
Mi trancerò via una mano con un colpo di accetta e userò il braccio come un idrante. Disegnerò cazzi di sangue sui vostri muri. Sangue sui palazzi, sulle strade, sui sagrati delle vostre belle basiliche. Ve lo farò ingurgitare e vi attaccherò le mia malattie. Globuli rossi, globuli bianchi, piastrine e virus. Tutto dentro di voi. Su, da bravi, tappate il naso e buttate giù. Se sopravviverete, diventerete come me. Avrete voglia come me di oltrepassare il filo spinato. E chiunque voglia unirsi a noi, non dovrà fare altro che seguire la scia di sangue.

Mister F



Il demone

A volte mi sveglio con un demone accanto.
Ha la faccia molle ed è vestito di blu. Non mi hai mai detto il suo nome.
Quando apro gli occhi e lui è lì, lo sento accarezzarmi la testa con una mano e bloccare ogni mio movimento con l’altra. Mi incatena al letto in una morsa dolce, e io non faccio niente per liberarmi.
Quelli sono giorni che non hanno un inizio, ma solo una lunga fine.
«Perché non mi hai mai detto come ti chiami?» gli ho chiesto oggi.
«Perché non me l’hai mai chiesto» risponde. «Vuoi farlo ora?»
Cerco di decifrare la sua espressione, celata dietro la penombra della stanza. L’aria profuma di una cenere antica, qualcosa che forse un tempo era qui ma oggi non c’è più.
Penso di fargli quella domanda, e già la lingua sta per muoversi costretta dalle sinapsi.
Ma poi cedo sotto le sue carezze e mi abbandono al più profondo dei sonni.
Che senso ha, dopo tutto?

Pseudo