Un giorno mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >> E mi resi conto che non lo sapevo bene neanche io.
Allora decisi di entrare.
Chiusi gli occhi e di fronte a me c’era una porta di legno piena di graffi. Era socchiusa, quasi un invito ad entrare.
Mossi i primi passi ma sentii subito gli scricchiolii. Il pavimento era di vetro. Allora avanzai in punta di piedi, le dita erano gocce di pioggia sui tasti di un Hammond. Piccole lucciole mi saettavano intorno, confondendomi con il loro scampanellio. Dispettosi, sogghignanti, volavano veloci e non c’era verso di prenderli.
Le pareti di pietra erano immense e umide, un manto di condensa spalmato sopra. La luce entrava da piccole fessure e cambiava direzione per non dare punti di riferimento. Poi simultaneamente le vidi, dita di luce puntate tutte su di me. L’intruso era stato riconosciuto.
Una voce sibilava alle mie spalle, invitandomi a sottopormi a giudizio. Davanti a me un solco sbilenco nel vetro tracciava un confine. Ai lati, migliaia di corpi nudi in attesa di verdetto.
<< Cosa aspetti di vedere? >> chiese la voce.
<< Bene e male >> risposi.
Un urlo entrò nelle orecchie come una lama. L’uomo cieco era arrivato. La testa era completamente fasciata di bianco e lì dove avrebbero dovuto essere gli occhi c’era una scia di sangue rosso, così scuro da apparire nero a volte. Aveva in mano una pistola e sparava a caso. Le pallottole trapassavano corpi a destra e a sinistra del confine. L’uomo cieco sparava a caso e buoni e cattivi morivano insieme. Le pallottole scivolavano sulla condensa o si conficcavano nella pietra. L’uomo cieco urlava e non la smetteva di sparare. Aveva munizioni infinite e un dito instancabile.
<< Che tu sia stato buono o cattivo, credo ti convenga abbassare la testa >> disse la voce.
I proiettili fischiavano come falchi in picchiata. Ero accucciato a terra, con le mani sulle orecchie e non capivo. Non capivo il perché. Cercavo una risposta, ma non la trovavo.
Allora arrivarono i lamenti. I corpi erano trafitti e le anime abbandonali gridavano vendetta, ululavano verso coni di luce argentea. La luna cercava di entrare ma non aveva il permesso.
La temperatura si alzò all’improvviso e ogni lamento divenne un grido. La rabbia esplose e lasciò crepe sulle pareti. Il vetro andrò in frantumi e rimanemmo sospesi in un vento di ira. Il ciclone si era formato e faceva da veicolo per le grida disperate. Il cielo si andava smontando e l’Inferno cercava di sprofondare ancora più giù, pur di non sentire tutto quel baccano. Le pallottole vagavano e facevano filotti di buoni e cattivi. Onesti, imbroglioni, gelosi, altruisti, empatici e psicopatici accumunati dalla stessa forma di carne che veniva traforata dal piombo.
La conta dei morti saliva e così quella delle anime ululanti e alla fine rimasi solo contro un esercito di spiriti. Ognuno di loro aveva cercato la sua giustizia e ognuno di loro aveva fallito.
Rimanevo solo io adesso. Io che pensavo ci fosse giusto e sbagliato, bene e male. Io che avevo commesso il più grande dei peccati, ora ero la vittima sacrificale del grande circo dell’umanità.
L’uomo ceco scappò nel buio, urlando e sparando.
Il giudizio universale era iniziato e i tamburi di ingresso battevano come dannati. I miei timpani si aprirono come petunie e ora era il giunto del confronto. Finalmente capii chi avevo di fronte. Tutte le versioni possibili di me. Le infinite combinazioni si erano radunate e sacrificate per l’uomo cieco, cavaliere della casualità. Le cose posso andare in un solo modo, le alternative soccombono. Il caso uccide tutte la chance, meno una. Ma lì dentro, in quella grotta ora squarciata e illuminata da una luna spietata, si contorcevano tutte le mie versioni alternative nate dai pensieri inutili del quotidiano. Erano frutti di quel cancro chiamato preoccupazione. La mia mente intrappolata in un loop di pensieri aveva generato ogni possibile singolarità. Ed ora tutte erano pronte ad attraversarmi. Sentii venti gelidi e bollenti alternarsi, al passaggio delle anime ingorde. Le voci erano milioni e parlavano senza sosta.
Ogni diramazione del destino generata da ogni scelta della mia vita mi stava trapassando da parte a parte. Era un mormorio inarrestabile e giunto nell’apice del suo piacere sadico si permise di aggiungere una punta di compassione.
Povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me
La rabbia, motore di ogni sentore umano, vera forza origine dell’universo, accelerava il ritmo e ogni spirito era una freccia infallibile. Non era dolore ciò che provavo, ma una fitta di impotenza ad ogni passaggio. Più veloce. Più veloce. Sempre più veloce.
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Silenzio
Gocce di mercurio mi cadevano in testa, nel silenzio assordante che lascia quel biiiiiiiip inconfondibile quando esci da un delirio di decibel. Tornarono le lucciole – dove erano finite – ma solo per ridere di me. I risolini divennero ghigni, poi starnazzi e le risate di corpo ora erano grida sadiche e tornò la voce del cieco – solo la voce – a sconquassare le pareti di pietra che crollavano sfiorandomi le braccia. Tutto era pronto al collasso sotto le grida della rabbia universale che nasce dalla ricerca di un senso che non c’è mai stato e mai ci sarà.
Lo spazio si distorse per un attimo e subito dopo sentii un branco di cavalli avvicinarsi al galoppo. Quando la luna decise di mostrarli, vidi stalloni giganti con gli occhi rossi, il pelo come petrolio e la bava tra i denti. Avevano zoccoli grossi come macigni e al loro passaggio la demolizione fu totale.
Mi travolsero.
Tutto esplose in un trionfo di sfoghi e quando il tocco finale della campana riportò tutto alla calma, mi resi conto che intorno a me non c’era più nulla, se non un senso di deliziosa e immotivata pace.
Qualche giorno dopo mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >>
Ci pensai un attimo, e sorrisi.
Mister F
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