La bestia incravattata

“Perché pensate alla violenza del mondo? Perché non pensate alla violenza che è in voi?” - B. K. S. Iyengar -

Ora che il sangue pompa forte nella carotide, questa cazzo di cravatta mi sta uccidendo. Meglio allentarla un po’. Non è facile. Provateci voi ad allentare il nodo con una mano, mentre con l’altra tenete a bada la puttanella.
Adesso non lo vuole più fare. Prima si innamora del bolide che tuona sotto la sua finestra. Ora vuole tornare a casa. Prima si bagna tutta, mentre divoro la città e supero gli sfigati. Ora vuole solamente essere accompagnata al suo portone. Prima entra dall’ingresso vip, mentre tiro fuori dal taschino della giacca scintillante, fresca di lavaggio, le tessere gold. Ora non vorrebbe essere mai entrata in quella topaia. Prima i suoi occhi brillano, nel riflesso dei miei gemelli. Ora sono colmi di terrore, mentre uso i polsi per tenerla ferma.
Credete sia facile? Sganciare la cintura di vero coccodrillo, slacciare la zip dorata, tirar fuori il serpente di marmo e trovare soprattutto quel maledetto buco, che ora lei cerca di rendermi irraggiungibile. Non è un gioco da ragazzi.
Stai buona, per dio. Non era questo che volevi? Lo senti, il profumo da quattrocento euro che ora ristagna sulla pelle dei sedili? E pensi che tutto questo sarebbe stato gratis, per te? Non credo proprio, signorina.
Tu ora sei il mio pezzo di carne. Quello di cui ho bisogno. Il mio premio.
Me lo merito. Ho calpestato i deboli e leccato culi potenti, per poter coprire il mio corpo d’animale con i tessuti più pregiati. Ho condannato a morte padri di famiglia, per avere duecentotrenta cavalli pronti a solleticarti le chiappe, mentre il motore sale a ottomila giri. Ho venduto l’anima in cambio di obbligazioni bancarie, per poterti dare lo sballo di una notte senza limiti. Quindi tu, ora, piccola troietta di periferia, sei il mio giocattolo.
E’ questo ciò che accade, dietro i salotti dei nostri circoli. La seta e l’oro nascondono le nostri carni pelose, colme di desiderio. E voi, oche anonime che aspirate alla meravigliosa eleganza del lusso, che volete vedere spalancate innanzi a voi le porte dei palazzi dove vive la gente che conta, che volete assaporare il potere senza aver prima strisciato nel fango come vermi da carcassa, dovete accettarne il contrappasso.
Lasciami inturgidire quei capezzoli. Voglio sentirli grattarmi il petto, quando sarò sopra di te. E smettila di spingere con i piedi. Con i soldi che ho speso per le scarpe che mi stai rovinando, potevo comprarne quattro come te. Sei stata fortunata, perché ormai mi sono incaponito. Io voglio te. E ti avrò.
Oh, la cravatta si è allentata, finalmente. Ci siamo, bambina. Questo è il punto di non ritorno.
Apri le gambe e chiudi la bocca. Abbiamo appena cominciato.

Mister Tenant


Il mio tempo

Il mio tempo è quello della cravatta slacciata. Quello in cui l’ufficio diventa vuoto e si rimane esausti sulla scrivania a scherzare mollemente con il collega, sapendo di avercela fatta anche questa volta. Il mio tempo è quello delle feste, quando tutti vanno via e al centro-pista balla solo qualche palloncino pigro. Quello del sole che affoga all’orizzonte mentre un pizzico di malinconia alberga in gola e una scrollata di spalle è tutto quel che rimane per scacciare la tristezza. Il tempo delle parole che hanno il gusto delle carezze e delle carezze che suonano come parole. Delle strade deserte piene di nebbia, dei boschi al crepuscolo, dei paesi che scappano fuori dal finestrino. Dell’amore che ti abbandona senza chiedere il permesso e di quello che invece irrompe in casa senza che tu possa capirci niente.

E’ sempre un colletto sbottonato, una nota di bemolle, una persona che non c’è più. Il mio tempo è una lacrima asciugata.

Orofino


Tacco e punta

Dissolvenza. Riapro gli occhi. 
Sono in auto, in tangenziale. 
Ho le mani sul volante. Una delle due, la destra, ad intervalli regolari si abbassa sul cambio.

Tacco e punta.

Sono in auto in tangenziale. C’è traffico. Tanto traffico. Come ogni mattina a quest’ora.
A passo d’uomo, se si è fortunati, altrimenti fermi del tutto.

Tacco e punta.

Mi giro intorno ed osservo. Mille e più auto si trascinano. Tanti visi. Tante storie. Noia.
Cartelli, asfalto, metallo, aria gelida e Guardrail.
Allungo lo sguardo e scorgo il mio buongiorno in un alba fioca e bruna, come un sole al tramonto.

Tacco e punta.

La mano destra sul cambio. Allungo l’indice ed accendo la radio…
“…dimenticarvi di chi vi vuole bene…sagittario: sarete chiamati a risolvere un problema complicato; siate pruden…” 
…cambio…. 
”…il brano appena ascoltato. Entra in classifica direttamente al sesto posto, dopo tre anni di assenza, con il suo ultimo singol…”
…cambio…
“…sul tetto dell’azienda, per chiedere la revisione del contratto. Dure le parole del sindacato nei confronti di quella che sembra esser…”
…cambio…
“…crema mani e viso per sentirsi più belle e prendersi cura di …”
“…ministro alla camera che esclude la possibilità di elezioni anticipate…”
“…con ecoincentivi a quattordicimilanovecentonovantanove euro chiavi in mano…”
“…problemi di caduta dei capelli???”
No! Mi cadono benissimo da soli…penso…sorrido…spengo…chissà se c’è stato un tempo in cui alla radio trasmettevano musica…

Tacco e punta.

Apro una striscia di finestrino ed un soffio di fresco inquinato mi investe il viso. Socchiudo un po gli occhi per godermelo.
Nell’auto vicina, due uomini. Hanno abiti da lavoro. L’uomo a sinistra fuma e guida. L’uomo a destra dorme.

Tacco e punta.

Nell’auto avanti scorgo una folta chioma di capelli ricci e biondi. Un cappotto marrone. Immagino quindi scarpe alte, eleganti. Forse stivali. Immagino calze, forse autoreggenti. Immagino tailleur, forse sexy. Forse no.

Tacco e punta.

Nell’auto alle mie spalle un uomo dai capelli grigi si prodiga in un lavoro certosino di scavo, eseguendo una perforazione a carotaggio continuo con l’indice in una delle sue narici. La destra. Intanto sembra avere lo sguardo perso nel vuoto.

Tacco e punta.

Ad ogni frenata, migliaia di fari rossi si accendono sui culi delle auto. Mi gratto il naso. Mi struscio un po gli occhi e sbadiglio. Immagino il caffè che desidero bere ed intanto in bocca sento ancora lontano quello sorseggiato al risveglio, sommerso dalla menta  del dentifricio.

Tacco e punta.

Riparto. Ora più velocemente. Riesco persino a inserire la seconda, ma sono costretto ad una brusca frenata quando un uomo, in abito elegante, con occhiali da sole eleganti, con la camicia elegante, la cravatta elegante, scarpe eleganti, in un auto elegante, mi ha elegantemente tagliato la strada. Non solo a me ma all’intero fiume di metallo che si trascina su questo viadotto, e si regala così imprecazioni un po meno eleganti. Sorrido pensando che corre per andare a lavorare.

Tacco e punta.

Si sta facendo giorno. Tutto adesso è più luminoso. Si riesce a scorgere la città. Oggi il cielo è terso, penso…chissà chi è arrivato secondo.

Fade



Giochi senza lacrime

Abbandonato sul letto come un pupazzo usurato, vedo mia moglie avvicinarsi. Si fa cingere dal mio braccio. Si appoggia sul mio petto. Piange.
Non lo biasimo. Quando hai quel periodo in cui pensi "finito questo, mi rilasso" e ti rendi conto che quel periodo dura da almeno tre anni, è giusto e doveroso lasciarsi andare per un po'.
La stringo, cercando di farle uscire più lacrime. Perché le lacrime assorbono il peso che hai nella testa e poi quando escono ti ripuliscono. Ti svuotano, ti fanno sentire più leggero. Come quando sudi via l'alcol nelle serate estive.
Lei si gira e mi chiede: "E tu, quando piangi? E' un sacco di tempo che non piangi. Ti fa bene, ogni tanto."
Rimango interdetto. Io non piango, di solito.
Beh, il fatto è che per piangere, qualcosa deve arrivare a pizzicarti il cuore. E il mio, in effetti, è un po' difficile da raggiungere.
E' come ritrovarsi a Giochi senza frontiere. Te lo ricordi, quel programma? In realtà si chiamava Jeux sans frontières, era un format francese. Ma i francesi lo hanno scopiazzato da Campanile sera, presentato da Mike Bongiorno. Anche se non lo ammetteranno mai.
Ecco, raggiungermi il cuore è un po' come partecipare a quel gioco.
Prima devi scalare sei o sette cinte di mura. Sono alte, scivolose e a volte cola dell'olio bollente lungo la pietra.
Se riesci a superare quelle, devi tuffarti nella palude di fango e scavare, scavare. Aprirti un varco nella melma delle decisioni sbagliate, dei ricordi amari, della rabbia incontrollabile, delle sbronze evitabili.
Se riesci ad uscirne vivo, devi saltare i ponti tagliati. Senza cadere nei precipizi tra gli estremi dei rapporti recisi, dei legami interrotti, a volte per amor proprio altre per paura.
Solo a quel punto, sarai arrivato a destinazione. E quando vedrai quella sacca pulsante piena di sangue contrarsi in maniera spasmodica, basterà una leggera schicchera con pollice e indice (oppure con il medio, alcuni la fanno così) per creare un terremoto. Di quelli che spaccano la terra, fanno tremare le montagne, mentre il cielo urla e gli stormi fuggono. Conoscerai il volto dietro la maschera, il trucco del mago sarà svelato e forse, dico forse, vorrai con tutto il cuore tornare indietro. Ridere davanti al primo muro e tornare a casa. Ma non sarà possibile.
Perché una volta che vedi il vero volto di un essere umano, non te lo scordi più. Ti rimane addosso come un livido. E ogni volta che lo vedi, realizzi che niente è come sembra. Che la verità sa essere terribile, se vuole. Può spezzarti le ginocchia, invalidarti a vita.
Quindi meglio evitare. Meglio che mi tenga il peso nella testa.
Finché ci riesco, meglio non piangere.
Meglio per tutti.

Mister Tenant


Brutta

Ah, sei una che viene dalla pioggia - dicono. Quando nasci a Portland ti piacciono la nebbia e i cavalli, è automatico. Non c'è molto altro a Portland se non nebbia e cavalli. Da piccola avevo un cavallo con la criniera bianca e la pancia grossa, la accarezzavo e dicevo How horrible you are, girly. Perché anch'io ero brutta, e lei era il cavallo perfetto per me. La domenica camminavamo nella nebbia per dimenticarci quanto fossimo brutte, così nessuno poteva vederci. Ma a Nyc non ti puoi nascondere anche se c'è tutta la nebbia che vuoi. Nebbia a palate, da tagliare e sniffare tutta in un colpo. Cosa prende? Un caffè e overdose di nebbia, grazie. Però non ci si può nascondere. Voglio dire che ognuno può essere brutto come vuole senza doversi nascondere tanto non gliene frega un cazzo a nessuno. Ti calpestano, i new yorkesi ti camminano addosso, come le ruspe, inarrestabili. Bravi, per questo mi piacciono. Per questo amo le grandi città, perché la gente non s-parla. Hai visto quello...? A New York devi prendere appuntamento anche per vedere il tuo riflesso allo specchio, that's it. Quanto ai cavalli invece ce ne sono pochi, la maggior parte li trovi nei locali vietati alle mamme di famiglia e ai figli sotto i tredici anni. Lì i cavalli ci sono, quelli belli grossi, gli unici che possono stare abbastanza vicino alle spogliarelliste con le stelline rosse al posto dei vestiti per vedere se sono poi così belle, depilate integralmente e senza cellulite, oppure se è tutto l'ennesimo bluff. Tanto sai che si dice dei cavalli? Che hanno il pisello grosso ma non sanno parlare. Per questo stanno tutti tranquilli. Sì, lo so, si dice What happens in Vegas stays in Vegas. Ma secondo me si può dire lo stesso della City. La sera prima fa la drag queen al Dolls sulla Murray e la mattina dopo sistema i documenti dell'agenzia di assicurazioni - nessuno ha visto niente, amici come prima. Quando nasci a Portland sei fatta di nebbia e umidità al 93%, ti piacciono i cavalli e puoi vivere solo nelle grandi città dove sei libero di essere ogni cosa. Anche brutta.

Chicana


Pozzo senza fondo

Siamo la generazione del pozzo.
Arriva il punto in cui arriviamo lì, sul ciglio. Le pietre fredde sotto i nostri piedi nudi. La brezza notturna a solleticarci la schiena. Le viscere si fermano, trattengono il fiato. Davanti a noi, al nostro muso leggermente sporto, il buio senza fine. Il nero che ti invita a farti inghiottire. Ha fame. Tu non vuoi buttarti, non sei mica stupido. Il solo pensiero di alzare un piede ti fa schizzare il cuore il gola, ti fa sentire il vuoto in grembo. Le ginocchia sono di gomma, ormai.
A quel punto, qualcos'altro ti spinge da dietro. La noia, l'infinito piattume di questa prospettiva di vita senza sobbalzi, senza emozioni, senza momenti che ti fanno muovere i muscoli della faccia. Ti senti già arrivato. E' come se la vita avesse accelerato troppo. Sei qui da pochi anni, ma te ne senti di più. Troppi di più. Senti di aver visto tutto. E di averlo visto più volte, in un ciclo infinito.
Aggrappati alle stesse persone, alle stesse idee, agli stessi concetti del cazzo. Hanno fatto la muffa, sono scaduti, sono marci e puzzano. Sanno di patate andate a male, quando ormai hanno germogliato da tempo e sono diventate poltiglia marrone che puzza di vomito.
Le stesse persone, le stesse relazioni. Sperando che stavolta sia quella buona, e invece niente. Gli stessi errori, sbagli ma non impari.
E' tutto merdosamente uguale.
E allora ti butti. Se non posso saltare oltre una certa altezza, allora preferisco andare giù. Perché sai già che quel pozzo è senza fondo. Che non c'è limite al peggio. E precipiti giù, mentre l'aria ti fischia nelle orecchie e te le buca, come una siringa gigantesca.
E continui ad andare giù, sempre più giù, ripensando alle stesse persone, alle stesse convinzioni. Scrivi sul tuo profilo social che da domani farai spazio al nuovo te, ma sono chiacchiere di fumo. Sei sempre lo stesso, fai sempre le stesse stronzate. E ad ogni giro di giostra, vai sempre più giù. Sempre più a fondo, ma il fondo non c'è. Il pozzo è infinito e tu cadi all'infinito. Il buio ti ingoia di digerisce ma non ti espelle. Ti tiene dentro, come uno stagno di avanzi nello stomaco.
E tu continui a passarti la lama sulla stessa ferita. Tempo di fare la crosta e tu la riapri. E continui così, senza sosta. Finché il fisico non reggerà più la merda che accumuli nel cervello.
E allora sentirai il fondo. Ma non ti basterà. Scaverai a mani nude, finché non le avrai consumate. Finché le braccia non saranno due moncherini sanguinanti. E così fino alla fine di tutto.
Quando ti renderai conto che una fine non può esserci.
Perché non c'è mai stato un inizio.

Mister Tenant


Voci

Rumori. Voci. Gli occhi si aprono all'improvviso. La sveglia sul comò segna le 2.00 am. Sembra impossibile, ma succede davvero. Non c’è rispetto. Bisogna prenderne atto, maledetti! Eppure la notte è nera, la notte dovrebbe essere buia anche per loro. Tutti dormono. Ma questi no. Un chiacchiericcio insopportabile. Senza contegno. Nessuno. Il sonno è evaporato, non rimane che alzarsi. Il bagno, la luce, una lunga pisciata. Poi la cucina. Una mano tra i capelli scarmigliati, una scrollata ai muscoli addormentati. Il timer del frigorifero frigge, l’orologio muove l’aria silenzioso. Non c’è quiete, continuano senza sosta. Come se ignorassero l’ora.

Il tavolo, un bicchiere d’acqua, giù tutto d’un fiato. Carino il portafrutta sulla mensola. Robetta, ma ci sta bene, ieri non c’era. Il calendario. Alcune date in rosso con le scadenze da pagare. Un altro anno è passato. Deglutire.

Il vociare. E’ diventato insostenibile. E’ come averli in casa. Dietro la porta d’ingresso.

Il divano, il telecomando, la televisione. Repliche, solo repliche e qualche film in bianco e nero. Chissà come si viveva una volta. 

Cosa bisogna fare? Chiedergli di smettere? Litigare? Domani il lavoro. Senza aver dormito, senza aver chiuso occhio. Il petto, un massaggio, fa male. Perchè gli altri dormono? Non sentono? Come fanno a non accorgersi di nulla? Perchè non si svegliano? Sarebbe da spaccare tutto, rovesciare mobili e sedie, strappare i fili, aprire la finestra e gridare forte. Forte, forte.

Il letto. Di nuovo. Le coperte su fino al mento, il cuscino sulla testa. Per non sentire. Per non sentire più. Per non sentire i cattivi pensieri.

Orofino