Emozioni

La bocca dell’intestino andrebbe accarezzata con la punta dell’indice. Me lo ripeteva spesso mamma, dicendomi che proprio lì, ad un palmo dallo sterno, si annidavano quelle che tutti, ciascuno nella propria lingua, chiamavano emozioni. Come serpenti a sonagli, raggomitolate in un canestro di saggina, se ne stavano sonnacchiose e indolenti, pronte a pungere all’improvviso. Cambiando muta, diventando tutte ad un tratto scattanti, vibranti, turgide e ficcanti.

Ne avevo paura, perchè non sapevo addomesticarle. Non ne sono mai stato capace. Ero io, ma non ero io. Ero loro. Ero quello che loro volevano che fossi. Un teatro vuoto, un tubo catodico rotto. I fili arpionati alle mie spalle e quel ghigno proprio dietro di me. Quel ghigno dal sapore gospel che avrei imparato a riconoscere anche da adulto, in uno dei tanti luoghi in cui sono stato qualcuno e quasi sempre nessuno.

Mentre le pagine della Vita si sfogliavano bislacche, non ho mai smesso di sentirle, sebbene le abbia vomitate tante volte, senza però espellerle veramente. Rimanevano aggrappate ai miei polmoni, nonostante gli sforzi e le suppliche perchè mi lasciassero in pace, in questo tempio svestito che ero diventato. Preghiere latrate alla luna che però sul campo hanno lasciato solo macerie, morti e freddo.

Qualcuno mi ha suggerito di dare loro un nome, di chiamarle con un vezzeggiativo, senza però riuscirci mai, perchè il vento non lo fermi con le mani e i calli sulle nocche possono forse farti sentire più forte, ma non per questo abile. E’ stato un dolore forte doverle accettare, poi subirle, quindi di nuovo accettarle. Mi sono entrate nel sangue, intrufolate nello sperma e riconfigurate nelle generazioni successive. Io le ho solo guardate, lasciandole scorrere e continuando, impudicamente, ad accarezzare la bocca dell’intestino con il mio indice sporco di codardia.

Orofino


Sorsi

Non attese nemmeno che la testina si poggiasse sul vinile dei King Weed. Iniziò a muovere il culo prima che la musica cominciasse a spiaccicarsi sulle pareti della stanza e dei nostri timpani. Senza togliere gli occhi dai suoi fianchi, cominciai a cercare la birra che avevo poggiato un istante prima sul tavolino alla mia destra. La trovai. Avvicinai la lattina alle mie labbra secche e tracannai un lungo sorso. La birra era ancora fredda, nonostante la temperatura nella stanza stesse salendo vertiginosamente. 
Lei ballava. Ballava come una pellerossa davanti al falò. Come una sciamana strafatta di peyote. Era a piedi nudi e le frange del jeans sdrucito le si infilavano sotto il tallone. Con la mano sinistra cercai il pacchetto di sigarette. Non ricordavo nemmeno di aver smesso di fumare da mesi, ormai. Ero troppo preso dai suoi fianchi. Deliziosi. Sinuosi. Se avessi avuto una tavola, li avrei surfati. Birra.

Le spalle. Mi diede le spalle. Che spettacolo. Mi diede le spalle e cominciò a togliersi la maglietta da hippy del nuovo millennio che indossava. Si muoveva come se non avesse fatto altro per tutta la vita. Fino a quel momento. Fino a quel tardo pomeriggio di una domenica di riposo. Liberò la schiena dalla prigionia della t-shirt. Rimase solo il reggiseno a segnarle la pelle. A scolpire un solco, un binario delizioso, una lunga lingua di carne su cui passare giorni a fare l'autostop.
Si voltò verso di me, ma non mi vide. Non poteva vedermi.Aveva gli occhi chiusi e la testa rivolta all'indietro. Un sorriso drogato le dipingeva il volto. I capelli cedevano alla gravità scoprendole i lobi delle orecchie. Lobi da succhiare. Un altro sorso di birra.

Aprì gli occhi e si avvicinò a me. Aveva uno sguardo assassino. Arrapante. Occhi che scavavano in profondità alla ricerca dell'oro nero. Occhi trivellatori, dipinti ad olio col mascara. Il sorriso drogato era scomparso. Le labbra schiuse. La punta appena visibile della lingua che sfiorava i denti.
Poi si voltò. Di scatto. Ridestandomi dal delizioso torpore in cui ero piombato. Mi diede di nuovo le spalle. Il suo culo danzava a pochi centimetri dal mio naso. Cominciò a sbottonarsi il jeans. Avrei voluto darle una mano, ma ero paralizzato. Incantato. Estasiato. Lei lasciò cadere il jeans fino alle caviglie e se ne liberò con un doppio passo alla Ronaldo. Indossava un imprudente tanga granata di pizzo. Si piegò in avanti, lasciandomi intravedere le porte del più carnale dei paradisi. Due riccioli di peli pubici le uscivano dallo slip. Poggiai la mano sinistra sul suo culo. Ne indagai la rotondità e le deliziose imperfezioni della pelle. Burrosa. Calda. Eccitante. La mano destra intorno alla birra. Un altro sorso, ma si.

Lei si abbassò. Piegò le ginocchia e aprì le cosce. Il culo sfiorò quasi il pavimento. Adesso mi mostrava la schiena. Con una mano raccolse i capelli e se li spostò in avanti. Avevo tutta la schiena a mia disposizione. Una prateria di pelle attraversata da un Mississipi prosciugato e senza schiavitù. Un'unica interruzione sul percorso: quell'infame reggiseno. Andava tolto. Poggiai la lattina di birra a terra. Avvicinai le mani al reggiseno, per slacciarlo. Ne approfittai per baciarle la schiena. Una volta. Poi un'altra. E un'altra ancora. Le slacciai il reggiseno e la strinsi forte a me. Le mie labbra cominciarono a profumarle il collo di birra. Le mie dita iniziarono a martoriarle i capezzoli. La sentii ansimare, delicatamente. 
Ma poi si alzò. Lentamente, ma si alzò. Il suo culo tornò a pochi centimetri dal mio naso. Fece un passo in avanti e si girò verso di me. Aveva solo il tanga e tanta voglia di scopare. Nulla in confronto alla mia. Si inginocchiò di fronte a me, poggiando le ginocchia sul suo jeans. Io mi appoggiai allo schienale della poltrona. Con la mano destra cercai nuovamente la birra. Non la trovai. Buttai un occhio, ma niente. Tornai a guardarla. La birra era in mano sua. L'aveva presa lei. 
E senza togliere gli occhi da dentro ai miei occhi, tracannò un sorso.


Jack Writhe


Scrivi, fottutamente.

Scriveva. Non pensava e scriveva. Le parole erano già dentro il cervello. Sulla punta della lingua e del buco del culo. Pronte per essere vomitate, cacate, sputate. Occhi chiusi e dita in movimento. La penna stretta tra indice e pollice. Il medio lo lasciava libero per mandare a fanculo qualcuno. Magari un fantasma, chissà. Gli scrittori ne hanno talmente tanti, specie dopo tre doppio malto di alto livello. La penna come un plettro. Assoli e accordi. Accordi e assoli. E la carta non era il pentagramma. Era la più distorta chitarra del deserto. Mancava il basso.

Scriveva. Scriveva del basso e delle note in chiave di basso. Il distorsore fuzz e quella voce nella testa. "Scrivi... scrivi... fottutamente... scrivi". Come si fa a scrivere fottutamente? Lui non lo sapeva. Nessuno lo sa. Ma bisogna scrivere. Lui avvertiva quel bisogno. Sensi unici, divieti di sosta e di fermata, precedenze alle rotonde. Lui scriveva di tutte queste cose tra una birra e l'altra. E un saluto allo specchio che rifletteva l'immagine di un vecchio con l'animo di un ragazzino e la carta d'identità che diceva "sette lustri e poco più".

Fanculo ai lustri. E fanculo agli illustri commedianti e commentatori della letteratura. Fanculo ai premi Strega e Bancarella. Sperava di vincerli un giorno, ma intanto li mandava a fanculo. Era giusto così. Era meglio per tutti. Per lui, che ancora aveva la fissa dello scrittore. Per sua moglie, che preferiva avere accanto uno capace di montare un mobile Ikea piuttosto che scrivere cazzate. Per i suoi figli, che dovevano mangiare, crescere, giocare coi giocattoli, fare sport, l'happy meal ogni tanto e cose così.

Ma lui scriveva. Continuava a scrivere. Non poteva farne a meno. Anche quando l'astinenza era durata settimane, persino mesi. Ad un certo punto, prendeva  una penna e chiudeva gli occhi. Chiudeva gli occhi e cominciava a scrivere. Senza pensare, of course. Per le correzioni, gli aggiustamenti, i diesis e le pentatoniche c'è sempre tempo. Quello che non può aspettare sta nel cervello e deve uscire. E lui lo faceva uscire. Sempre. Ci ricascava sempre. Come l'ultima dose del Ragazzo in Affitto a cui ne sarebbero seguite altre e altre ancora e ancora altre. Se ne sbatteva di essere inseguito dalla sbirraglia delle responsabilità e della modernità. Si chiudeva nel cesso della mansarda, si sedeva sulla tazza e cacava. E scriveva. E sudava, perché in mansarda faceva caldo. E poi era estate. La finestra era aperta, ma la porta restava comunque chiusa per non far uscire la puzza e allora addio corrente d'aria. Tutto era paralizzato. Tutto era fermo. Il vento e persino le gocce di sudore che si spiaggiavano sulle rughe della fronte e degli occhi.

Tutto fermo tranne la mano destra. Quella che impugnava la penna. Scriveva, quella dannata mano del cazzo scriveva come se non ci fosse un domani. Eppure un domani ci sarà sempre. Il problema è che forse non sarà per noi. Non sarà il nostro domani. Ma 'sti cazzi. Noi non siamo nessuno. Scribacchini e basta. Una scorreggia nell'Universo. Se morissimo tutti adesso, se il Pianeta intero esplodesse e non rimanesse memoria delle umane vicende e genti, non se ne accorgerebbe nessuno. Nessuno nell'universo.

A nessuno nell'universo interessava leggere ciò che la sua mano destra stava scrivendo. A nessuno nell'universo interessava la sua opinione su qualche cazzo. Ma lui scriveva, e se ne sbatteva. 
Scrivere, e sbattersene. Forse è questo il segreto.
Un'altra pinta, per favore.


Jack Writhe

L'ultimo sole

E se un giorno, il sole decidesse di non tornare più?
Se una mattina ci svegliassimo e ci rendessimo conto che è ancora buio?
E che forse lo sarà per sempre?
Se sapessimo che quello di fronte a noi è l'ultimo tramonto della storia, lo guarderemmo con gli stessi occhi?
Ci sentiremmo come in quei giorni in cui davamo per scontato il suo ritorno?
Cosa faremmo, se quello davanti a noi fosse l'ultimo Sole?

Il mondo si dividerebbe tra scienziati e poeti.
I primi cercherebbero in tutti i modi di arrestare la catastrofe. Curvi sulle loro scrivanie, li vedremmo spremere le loro menti geniali per trovare l’equazione in grado di risolvere il problema. Cercherebbero un modo per cambiare la rotazione del pianeta, per rincorrere quel sole intento a fuggire, stufo della nostra arroganza. Alcuni di loro comparirebbero in giacca e cravatta davanti alle telecamere, elencando con saccenteria la catena di conseguenze sui processi biologici, le maree, i cicli naturali e tutte quelle cose di cui crediamo di essere esperti perché una volta abbiamo letto un articolo su www.lascienzapergliimbecilli.com.
Nel frattempo, i poeti si radunerebbero sulle grandi spiagge che volgono a Ponente. Seduti, in piedi, in ginocchio. Osserverebbero in massa la palla di fuoco risucchiata dal mare ingordo, riempiendo i loro occhi di quella luce rossa che violenta l’orizzonte per l’ultima volta. In bilico tra l’estasi, data dalla visione dall’immensa uscita di scena del simbolo della vita, e la rabbia, data dalla consapevolezza che la nostra miserabilità è arrivata a tal punto che anche il Sole ha deciso di voltarci le spalle.
Eccolo, ormai è ridotto ad una sottile linea color sangue che galleggia sull’oceano.
Gli scienziati prendono a pugni le tastiere dei computer. E piangono. Come bambini che non sono riusciti a sconfiggere il mostro finale del loro videogioco preferito.
I poeti sorridono, in faccia alla fine. Domani sarà buio. Dopodomani anche. Potremo lanciare i nostri ultimi versi d’amore alla Luna, alle stelle, alla notte. Prima che l’assenza di luce uccida tutti gli ecosistemi e ci trascini nell’oblio che, evidentemente, ci siamo meritati.

Mister F


Riflessioni galleggianti nella stagione balneare

I miei passi affondano lenti nella sabbia intrisa di acqua e salsedine. Intorno a me, giovani oche starnazzano su modelli di bikini e uomini di plastica. Bagnini palestrati e oleosi biascicano insulti ai bagnanti indisciplinati e complimenti di borgata alle fanciulle, che ancheggiano e gareggiano tra loro a chi riceve l’epiteto più feroce.
Tutto rumore superfluo.
Mamme stanche urlano disperate verso giovani creature che fuggono dall’oppressione familiare. Piccoli guerrieri in costume affrontano le onde, urlando come nativi americani.
Tutto rumore superfluo.
In lontananza, il chiasso delle stoviglie nelle tavole calde, montate su palafitte che non danno proprio quel senso di stabilità che uno si aspetta. Le chiacchiere inutili e teatrali di chi non ha nulla da dirsi.
Tutto rumore superfluo.
Allora entro in acqua. E’ fredda, di un freddo che ti detesta, che vuole proprio farti male. Me ne infischio. Mi immergo. Lentamente, i sospiri del mare cominciano a scavalcare le voci. Tra un sospiro e l’altro, mi sto abituando alla temperatura. Ho preso il largo. Con il corpo, con la mente. Intorno a me, solo acqua. Acqua e pensieri. Ma i miei pensieri sono pesanti e, dopo un po’ di resistenza, affondano. Sprofondano negli abissi e annegano. Una morte violenta per pensieri violenti. Nel frattempo, la cresta d’acqua mi culla un po’. La linea dell’orizzonte danza lentamente. Eccoci finalmente, io e quel vecchio bastardo del mare. Mi lascio andare un po’, mentre il cervello prende una boccata d’aria.
E’ così che vorrei vivere. In una dimensione acquosa e danzante, dove il blu ti circonda in ogni sfumatura e le parole degli altri si sciolgono come sale. Un immensa vasca di liquido amniotico, dove rimandare l’appuntamento con la nascita. Dove evitare il mondo e i suoi insopportabili rumori. A volte vorrei sentirmi così, nel mio regno perfetto e asettico. Per non sentire dolore, non sento più nulla.
Ma dovrei anche rinunciare a quella piacevole esplosione che ti devasta il petto ogni volta che, anche se solo per un secondo, riesci a sconfiggere le avversità.
E allora meglio tornare a riva. Ascoltare tutto quel rumore superfluo. Perché se insisti veramente, se ci credi fino all’ultimo, anche in un mare letame puoi trovare la tua perla.
Anche nel rumore superfluo, puoi trovare la parola che stavi cercando.

Mister F


Magnolia

Dalla persiana abbassata si intravedeva il mare. Era illuminato dalle luci di alcuni mercantili. La notte era poco fuori ad attendere. Sulle lenzuola traccie di amore. In strada, un'ambulanza sfrecciava a tutta velocità: una macchina si era da poco impiastricciata ad un incrocio. I vetri dell'auto brillavano come diamanti sull'asfalto che faceva da talamo nuziale. Due persone, un uomo e una donna, giacevano riversi per terra. Di loro non c'era più nulla. Solo il ricordo, ma poi, con il tempo, anche quello sarebbe scomparso.

Dalla finestra la città si muoveva ancora. La brezza lampeggiava tra i loro capelli sudati. Il suo petto, i suoi seni esposti al caldo del tardo pomeriggio. Quanto avevano parlato quel giorno. Così tanto da consumarsi la lingua. E ogni parola era stata utile. Importante per loro, un mattone dopo l'altro per costruire un muretto sul quale si erano poi seduti ad osservare il futuro.

E che abbracci! Uno più forte dell'altro, sopra la vita che scorreva dieci piani sotto. Ma bisognava andare. Perché mica tutto poteva durare per sempre, anche se da quell'assaggio di beatitudine non si sarebbero staccati mai.

- Andiamo a piedi? E' bello...- fece lei
- Prendiamo la macchina, faremo prima.

Orofino