Scriveva. Non pensava e scriveva. Le parole erano già dentro il cervello. Sulla punta della lingua e del buco del culo. Pronte per essere vomitate, cacate, sputate. Occhi chiusi e dita in movimento. La penna stretta tra indice e pollice. Il medio lo lasciava libero per mandare a fanculo qualcuno. Magari un fantasma, chissà. Gli scrittori ne hanno talmente tanti, specie dopo tre doppio malto di alto livello. La penna come un plettro. Assoli e accordi. Accordi e assoli. E la carta non era il pentagramma. Era la più distorta chitarra del deserto. Mancava il basso.
Scriveva. Scriveva del basso e delle note in chiave di basso. Il distorsore fuzz e quella voce nella testa. "Scrivi... scrivi... fottutamente... scrivi". Come si fa a scrivere fottutamente? Lui non lo sapeva. Nessuno lo sa. Ma bisogna scrivere. Lui avvertiva quel bisogno. Sensi unici, divieti di sosta e di fermata, precedenze alle rotonde. Lui scriveva di tutte queste cose tra una birra e l'altra. E un saluto allo specchio che rifletteva l'immagine di un vecchio con l'animo di un ragazzino e la carta d'identità che diceva "sette lustri e poco più".
Fanculo ai lustri. E fanculo agli illustri commedianti e commentatori della letteratura. Fanculo ai premi Strega e Bancarella. Sperava di vincerli un giorno, ma intanto li mandava a fanculo. Era giusto così. Era meglio per tutti. Per lui, che ancora aveva la fissa dello scrittore. Per sua moglie, che preferiva avere accanto uno capace di montare un mobile Ikea piuttosto che scrivere cazzate. Per i suoi figli, che dovevano mangiare, crescere, giocare coi giocattoli, fare sport, l'happy meal ogni tanto e cose così.
Ma lui scriveva. Continuava a scrivere. Non poteva farne a meno. Anche quando l'astinenza era durata settimane, persino mesi. Ad un certo punto, prendeva una penna e chiudeva gli occhi. Chiudeva gli occhi e cominciava a scrivere. Senza pensare, of course. Per le correzioni, gli aggiustamenti, i diesis e le pentatoniche c'è sempre tempo. Quello che non può aspettare sta nel cervello e deve uscire. E lui lo faceva uscire. Sempre. Ci ricascava sempre. Come l'ultima dose del Ragazzo in Affitto a cui ne sarebbero seguite altre e altre ancora e ancora altre. Se ne sbatteva di essere inseguito dalla sbirraglia delle responsabilità e della modernità. Si chiudeva nel cesso della mansarda, si sedeva sulla tazza e cacava. E scriveva. E sudava, perché in mansarda faceva caldo. E poi era estate. La finestra era aperta, ma la porta restava comunque chiusa per non far uscire la puzza e allora addio corrente d'aria. Tutto era paralizzato. Tutto era fermo. Il vento e persino le gocce di sudore che si spiaggiavano sulle rughe della fronte e degli occhi.
Tutto fermo tranne la mano destra. Quella che impugnava la penna. Scriveva, quella dannata mano del cazzo scriveva come se non ci fosse un domani. Eppure un domani ci sarà sempre. Il problema è che forse non sarà per noi. Non sarà il nostro domani. Ma 'sti cazzi. Noi non siamo nessuno. Scribacchini e basta. Una scorreggia nell'Universo. Se morissimo tutti adesso, se il Pianeta intero esplodesse e non rimanesse memoria delle umane vicende e genti, non se ne accorgerebbe nessuno. Nessuno nell'universo.
A nessuno nell'universo interessava leggere ciò che la sua mano destra stava scrivendo. A nessuno nell'universo interessava la sua opinione su qualche cazzo. Ma lui scriveva, e se ne sbatteva.
Scrivere, e sbattersene. Forse è questo il segreto.
Un'altra pinta, per favore.
Jack Writhe
Jack Writhe
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