La bocca dell’intestino andrebbe accarezzata con la punta dell’indice. Me lo ripeteva spesso mamma, dicendomi che proprio lì, ad un palmo dallo sterno, si annidavano quelle che tutti, ciascuno nella propria lingua, chiamavano emozioni. Come serpenti a sonagli, raggomitolate in un canestro di saggina, se ne stavano sonnacchiose e indolenti, pronte a pungere all’improvviso. Cambiando muta, diventando tutte ad un tratto scattanti, vibranti, turgide e ficcanti.
Ne avevo paura, perchè non sapevo addomesticarle. Non ne sono mai stato capace. Ero io, ma non ero io. Ero loro. Ero quello che loro volevano che fossi. Un teatro vuoto, un tubo catodico rotto. I fili arpionati alle mie spalle e quel ghigno proprio dietro di me. Quel ghigno dal sapore gospel che avrei imparato a riconoscere anche da adulto, in uno dei tanti luoghi in cui sono stato qualcuno e quasi sempre nessuno.
Mentre le pagine della Vita si sfogliavano bislacche, non ho mai smesso di sentirle, sebbene le abbia vomitate tante volte, senza però espellerle veramente. Rimanevano aggrappate ai miei polmoni, nonostante gli sforzi e le suppliche perchè mi lasciassero in pace, in questo tempio svestito che ero diventato. Preghiere latrate alla luna che però sul campo hanno lasciato solo macerie, morti e freddo.
Qualcuno mi ha suggerito di dare loro un nome, di chiamarle con un vezzeggiativo, senza però riuscirci mai, perchè il vento non lo fermi con le mani e i calli sulle nocche possono forse farti sentire più forte, ma non per questo abile. E’ stato un dolore forte doverle accettare, poi subirle, quindi di nuovo accettarle. Mi sono entrate nel sangue, intrufolate nello sperma e riconfigurate nelle generazioni successive. Io le ho solo guardate, lasciandole scorrere e continuando, impudicamente, ad accarezzare la bocca dell’intestino con il mio indice sporco di codardia.
Orofino
Orofino