I.G.U.S.

Non era la Route 66. Era la via Emilia. E faceva caldo, un caldo boia. Quello appicicaticcio di metà luglio, con le zanzare che dalle roggie salivano a sorseggiare sangue fresco, gioioso, ricco di ormoni. Erano sempre le 14, mai un minuto prima, mai un minuto dopo.

Ci si puntellava alla “ciambella”, uno spiazzo mattonato nel bel mezzo del parchetto comunale. Il tempo era solitamente giusto. Quello delle canne e delle bestemmie aggratis. Delle vacanze estive e dei parenti da andare a trovare. Si arrivava sgommando e scarenando. La sigaretta accesa in bocca, il casco allacciato sul braccio, i capelli sconvolti e raccolti in una coda. Il coltellino nelle tasche dei jeans a pizzicare un pò, ma necessario perchè le battute di caccia erano in qualche modo aspre.

Volavano battute e apprezzamenti volgari, poi si schizzava insolenti. In batterie da tre o quattro bikers. Un rosario di giovanotti lungo la strada, ben allineati ai semafori. I bicipiti pulsanti al ritmo della marmitta. Era la banda dei “minchia oh!”, con la miscela in perenne riserva e la catenina d’ora sopra la maglietta. Il sole delle alpi sferzava i bolidi riccamente gommati. Il mondo era alla portata di un rutto.

La provinciale squamava come burro fuso, i capannoni industriali preannunciavano l’età del lavoro coatto, provocando una sequela di sensazioni che spaziavano dal mal di testa alle flautolenze impertinenti. Bisognava arrivare presto. E bisognava arrivarci da fighi. Alle fighe. Con tutta la sfrontatezza dell’essere sottoproletari adolescenti, reietti delle case popolari, ma con un solo obiettivo: da tamarri, correre più veloci del vento!

Orofino


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