All’inizio era la fase della scannatura. Gli uomini arrivavano presto la mattina. Lui li sentiva con il passo pesante e con l’alito che sapeva di alcool e morfina. La sera prima gli davano da mangiare ghiande e erba, come estremo gesto di beffarda carità. Entravano all’alba, con un sole pigro in lontananza. Lui si nascondeva nell’angolo più lontano, al buio, dove aveva passato mesi a defecare e a ruminare merda mista a paglia. Si appiattiva alla parete, indurendosi come un tronco di legno. I nervi contratti, gli arti rigidi, un filamento di bava pendente dalla bocca. Grugniva nell’universalità del lamento. Non c’era cuore che poteva ascoltarlo. Perchè quello non era il suo tempo. Lo afferravano smanando sul suo corpaccione. Qualcuno arrivava sempre alle spalle. Sollevandolo da quella terra in cui si era rotolato per mesi, tra schizzi di fango e poltiglie di melma. Un altro lo teneva stretto per il collo, mentre a quel cielo sordo e cattivo levava i suo rantoli. Il respiro diventava affannoso. Poi selvaggio, rabbioso. Sembrava un demone quello a cui tagliavano la gola, con un grosso coltellaccio, di quelli da cucina, di quelli che perforano la carne senza chiederle permesso. Si dimenava in maniera scomposta, innaturale. Non c’era più coordinazione, ma solo parodia di un’esistenza.
La lama segava la trachea e fontane di sangue irroravano la terra. Tutti gridavano. Vittima e carnefici, insieme, come insoliti compagni di merende. La nebbia sugli occhi, l’afflosciarsi dei muscoli. Intorno non più voci, solo versi.
Sentiva freddo. E uno strano formicolio nel fondo del ventre. Era ora di cadere, di lasciarsi insomma vincere, corpo senza anima, vita senza storia. Ancora un attimo. Prima del cielo, prima del mare e del mondo, prima della creazione e di ogni altra cosa ripensò a quell’ultima volta, tanto tempo fa, quando sua madre gli rimboccò le coperte dicendogli “Amore, dormi sereno. Non ti capiterà mai nulla di male”.
Orofino
Orofino
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