Avete mai provato a fare un salto dall’altra parte? A capovolgere il punto di vista? Prima di aprire bocca, o di intraprendere un’azione, avete mai immaginato le conseguenze immediate?
Non sto cercando di fare sciocchi moralismi. Dico solamente che c’è modo e modo di dire o fare qualcosa. E quelle che ci sembrano sfumature insignificanti, possono cambiare tutto.
In ognuno di noi c’è luce e oscurità. La nostra posizione tra esse varia di giorno in giorno. Ognuno di noi può essere il migliore degli eroi e il giorno dopo trasformarsi nel più viscido dei bastardi. E quando un pensiero passa attraverso la mente e arriva alla bocca, questa sceglierà parole diverse, a seconda di quale posto occupa in quel preciso istante la nostra coscienza. E parole diverse, causano reazioni diverse.
Prima di agire, pensate sempre a dove siete, dentro di voi. Se avete intenzione di contribuire, o volete solamente offendere. Provate a pensare se chi riceverà le vostre parole e azioni, si sentirà spronato a confrontarsi o avrà solamente voglia di mandarvi affanculo.
Ogni tanto, fate un salto dall’altra parte. Fuori e dentro di voi. Scoprirete cose che vi lasceranno a bocca aperta.
Serviva un barbiere. Per dare un taglio netto a tante cose, non solo ai miei capelli. Quei capelli che spettinavano il vento, indomabili come una mareggiata. Capelli senza un perchè, senza un'idea chiara, confusi e contorti nel modo di porsi.
Serviva un barbiere veloce con le forbici. Svelto di mano e di pensieso. Uno che sapesse il fatto suo, cresciuto nella bottega di qualche barbiere vecchio stampo, lontanto anni luce dai cosiddetti "parrucchieri da uomo", attenti all'ultima moda lanciata da uno sfigato in tv o da qualche miliardario in pantaloncini.
Serviva un barbiere che sapesse usare la macchinetta come il rasoio. Tagli netti e decisi. Omogenei. Tagli che conoscono la differenza tra equilibrio e moderazione. Un po' come me, che sono forse equilibrato, ma di certo non sono moderato. La moderazione è un lassativo: fa cagare. Con la differenza che non aiuta, non pulisce, non purifica. Non fa un cazzo. La moderazione, sappiatelo bene, non fa un cazzo. Si limita a gestire. A pettinare. A render liscio ciò che è crespo e ad arricciare un po' ciò che è piatto. La moderazione è roba da parrucchieri, mentre a me...
Serviva un barbiere. Uno che tagliasse a zero le mie cicliche insoddisfazioni. Il rischio che diventino croniche è sempre in agguato, come un gol preso in contropiede dopo una partita dominata. Ogni tanto bisogna rasarle. Farle cadere sulle nostre spalle, poi a terra. E spazzarle via, buttarle nell'immondizia. Tanto ricresceranno, si sa. E allora servirà un'altra volta un barbiere, a meno che...
A meno che non saremo diventati barbieri. E allora le insoddisfazioni se la vedranno direttamente con noi. Rasoio in mano.
Europa era una bellissima idea. Era la culla della cultura, il crocevia dei popoli. C’erano le lingue, gli usi e i costumi da far conoscere. Gli scambi e i confronti. Come il Sacro Rituale della Sabbia. Terre con colori diversi che si riversano nella stessa ampolla, formando un'unica terra con identità amalgamate ma ben distinte tra loro.
Europa oggi sono chiacchiere da salotto. Sono proclami politici che fanno da scudo ad un cancro centralizzato. Strozzinaggio legale da parte di un club di bancari marci. Il peggio di ogni Paese riunito nella stessa stanza. Fantocci incravattati che violentano le loro bandiere con un cazzo finto fatto di banconote. Una banconota che avrebbe dovuto unire, abbattere barriere. E invece non fa altro che generare rabbia e veleno.
Europa oggi è teatro di guerra. Quelli che qualche secolo fa venivano trapassati dalle spade dei Crociati, in nome di un Dio che non ha mai chiesto niente del genere, oggi si fanno esplodere in qualche concerto o al mercato nell’ora di punta. Europa è ferita, sanguina. Non conosce più dignità, rispetto, tolleranza. Ai suoi piedi, la gente muore sotto le macerie. Nella sua testa, il pericolo viene dall’immigrato. Non capisce che il vero virus da debellare è quel cazzo finto, fatto di carta e filigrana.
Oggi, l’unico momento in cui Europa può tornare a sognare, è quando vibra attraverso le note graffianti di un chitarrista. Un chitarrista messicano.
B: Moltissimo. Vedo tutto di te. Vedo la tua faccia, quella faccia di merda che hai e i capelli che sono un labirinto infernale dove vive un toro indemoniato con gli occhi da uomo e gli zoccoli al posto delle mani. Vedo il tuo culo e l'ombelico che se lo bucassi potrei vedere le tue stronze budella venire fuori come lumache. Ti vedo, vedo le posizioni in cui ti metti, quando ti inginocchi vedo la tua testa, quella perfetta testa di cazzo che porti in giro per il mondo. Vedo quando vieni e quando urli e vedo anche la differenza tra quando urli di piacere o di dolore. Ti vedo quando sei un cane e la rabbia ti mangia da dentro. Ti vedo fare a pezzi le certezze, quelle degli altri e le mie, con le mani e con i bastoni e con le spranghe di ferro. Terrorista, punk, Black Block. Ti vedo quando sei debole, inutile, un pezzo di carne buttato su questo mondo tra miliardi di altri pezzi di carne che vanno dritti al macello. Ti vedo quando spicchi il volo e dall'alto dici Quante pietre schiacciate a terra che non sono capaci di andare dove vai tu. Io sono a terra, e ti vedo. Ti vedo lassù e non so come prenderti, come fare ad afferrarti, a sentire almeno l'odore. Ti vedo ma non ti capisco, no. Se era questo che intendevi. Non lo so se gli altri siano capaci di farlo, di risolverti. Sei un cubo di Rubik con mille facce, tutte diverse e senza soluzione. Quello che cerchi non è dentro di me, il tuo è un volo solitario. Stai cercando qualcosa che chiama solo te. Questo lo vedo. Da qui, vedo le piante dei tuoi piedi che hanno camminato troppo a lungo, vedo il buco del tuo culo, le cosce che si chiudono e le punte dei capelli. Vedo la tua pelle calda ma forse quella la vedo perché l'ho toccata e brucia, mi ha ustionato le mani, la tua pelle da piromane che fa fuoco e distrugge qualsiasi cosa tocchi. La mano destra ha perso ogni sensibilità al tatto e tornare indietro ormai è impossibile. Non si può più tornare indietro e neppure andare avanti. Vedo che è questo il posto in cui mi hai messo, un gioco al massacro di domande e di aspettative. Vuoi che io ti veneri? Il tuo ego mi ha strappato la carne con i denti e sono rimasto vivo, non ho avuto la fortuna di morire, non sono svenuto. Sono rimasto cosciente tutto il tempo mentre mi spaccavi le ossa e mi tagliavi a pezzi. È un dolore che non si può raccontare ma io so. Io ormai so. E tu sei ancora lontana e cannibale, incompresa quasi del tutto, una stupida incognita, l'estenuante cammino nel deserto in cerca di un po' d'acqua. Resta seduta, smetti di guardarmi. Non mi piacciono i tuoi occhi, dentro ci vedo dei buchi neri che non somigliano a delle pupille. Chiudi le gambe, ti prego. Da te esce un richiamo, un lamento sottile, un odore di foresta e animali selvatici che mi stanca, vedo la bocca di un cane senza denti spalancata che sbava, ha sempre fame. Fermati. Fammi scendere. Il tuo mondo è distopico, allucinato. Come pensare tutti i pensieri contemporaneamente, mi consuma. Io sono come gli altri, voglio una vita semplice. Voglio amare una donna che si svegli e vada a letto e che faccia l'amore e che rida quando bisogna ridere e che pianga quando fa male. La tua faccia da lupo mi piega, anzi mi spezza. Miri sempre agli organi vitali, sono stanco. Stai zitta, la tua voce è un colore dentro l'altro e non so più quanti siano le declinazioni e i tempi verbali dell'amore. Mi hai smascherato, e lo fai con tutti quindi nessuno ha più diritto degli altri. Vorrei liberarmi di te senza doverti perdere, ti ho chiesto di sedurmi e non di incastrarmi. Non ti posso amare perché ti vedo e non riesco a rispettarti. Vorrei vederti fisicamente come ti vedo emotivamente, affamata, picchiata, spezzata.
A: Tu mi sgridi per vedere cosa sono diventata ma nessuno può odiarmi più di quanto mi odio io.
“Sissignore”. Ascolta come lo pronuncio bene. “S I S S I G N O R E”. Mi piace ripeterlo, perchè la mia voce diventa melliflua, come un balsamo cardiaco. E’ un’inflessione che arriva da lontano. Sin da piccolo sono stato educato a piegare il capo. E ti dirò: è una condizione alla quale ci si abitua presto, con una certa facilità. Di padre in figlio, di matrice in matrice.
“Sissignore”. Come un gesto meccanico che ripeto senza domandarmi il motivo. Tanto poco mi importa. Anzi, m’interessa un fico secco. Il conflitto mi indispone, merito la pace e della delega faccio la mia bandiera. Che poi, cosa pensi, che sia l’unico? Anche se da qualche parte una radio gracchia “And love...it won't last kissin' time”, io accetto la mia sorte e non cerco brighe. Insieme a me una turba di uomini e donne con cui all’unisono sosteniamo le volte del cielo ripetendo come un mantra “Sissignore”. Che sia bianco o nero, alto o basso, non ci indisponiamo, ma diventiamo duttili, accondiscendenti, disponibili.
Ci accomodiamo a tavola con le braccia conserte, perchè così ci hanno insegnato. Un padre carmelitano intona il “Te Deum”. A turno diventiamo il Nazzareno e ciascuno offre il proprio costato, purchè si faccia in fretta, purchè ci si lasci stare. Affidiamo ad altri le rivolte. I pensieri immacolati ci disgustano. Non aneliamo alla parte giusta della Storia. E neppure a quella sbagliata. Ci accontentiamo di quella che vorranno riservarci. Tanto noi, piegati dall’oboedientia ventri, avremo sempre poco da dire e scarse riserve di energia cinetica. Fauna di periferia, siamo destinati a orizzonti corti, spesso fumanti e al dente. Ma va bene così. Anche se finiamo per essere di frequente seduti sul banco degli imputati, ci basta scambiarci uno sguardo d’intesa per mondare le nostre coscienze e pensare che tanto non poteva che finire così.
Partano altri lancia in resta. Non siamo gente da battaglie. Ci muoviamo dinoccolati nelle retroguardie dove una scatola di biscotti la si busca comunque. Siamo meri esecutori, punto e a capo. Vogliamo che si parli al nostro stomaco, la mente è una scatola ingombrante in cui deportiamo a stento pensieri pornografici. Abbiamo due armi sole, la forchetta ed il coltello. Non c’è fretta, gringo, i muscoli non sono tesi. In qualche modo, il nostro momento arriverà.
Sento il respiro che mi trapana il petto. Costretto a portare un fardello che non ho mai chiesto. Chiudo gli occhi e vedo solo nero. Inarrivabile vuoto che mi risucchia le forze. Il mio spirito è ammaccato, plumbeo come i lividi che porto da sempre. Quando sembra stiano per svanire, arriva un altro colpo. E sono di nuovo scuri, e fanno male. Le forze mi abbandonano, non torneranno. Rimango nel limbo dei semimorti. Sono un’ombra senza identità. Ancora troppo vivo per finire sottoterra, non abbastanza in vita per stare in piedi.
Riportami in vita. Afferra la mia mano, che vaga nell’infinito squallore del nulla in cerca di qualsiasi appiglio. Trattieni la mia anima, prendila a morsi. Fammi sentire l’odore del sangue. Schiaffeggiami il cuore, finché non sarà sveglio. Fammi capire che c’è ancora qualcosa per cui combattere. Entra nei miei occhi, tuffati nel mio inconscio e vieni a raccogliermi.
Quaggiù fa un freddo cane. Portami tutto il fuoco che hai.
Eppure in segreto ti guardo, quando il respiro diventa più lento. Quando il tuo carattere turbolento si placa.
Non c'è bisogno che scosto le coperte. Ti sò a memoria.
Sò la mappa dei tuoi nei, piccoli e non in rilievo, e mi trovo a pensare che a tracciarli tutti con una penna, forse, scoprirei nuove costellazioni.
Nascondo il viso nell'incavo del tuo collo. Ed è lì che si placano tutti i miei pensieri. È lì che si sospende la vita e il tempo sfugge alle sue regole cadenzate. Quel profumo che hai. Forse è quel profumo che mi fa impazzire, che mi manca quando non ci sei. E quegli occhi. Che li appoggi a volte, li appoggi da qualche parte e te li dimentichi, ma io mi ci perdo dentro. Li temo. Li osservo. Li sfido. E perdo sempre, tra quel marrone e quei cristalli di verde che sembrano schizzati dalle mani di un pittore che lancia il colore sulla tela in preda ad una furia cromatica, e quel bordo grigio finale, una galassia racchiusa tra le ciglia.
Sei una distesa di morbido deserto, sei un mare in tempesta d'inverno, e sei una profonda notte stellata sotto cui tirare l'ultimo respiro in pace. Ma sei il sole all'alba, sei il nuovo giorno che sà di promesse.
Mentre attraversi la strada ti viene quella cosa, come si chiama, di quando hai vissuto per sei anni in un posto e tutto è rimasto uguale all'ultima volta che l'hai visto e cioè quando te ne sei andata, e le persone sono sempre le stesse perché è un posto piccolo anche se tutti si fanno i fatti loro e nessuno viene a dirti come stai o come ti senti però ti vedono tutti i giorni e tu vedi loro e vi vedete così spesso che era un continuo di saluti perché da queste parti per strada ci si saluta, soprattutto se ci si incontra più di due volte. Celeste è ancora alla farmacia e ha quell'anello che ti piace veramente tanto, sgrana gli occhi, dice Ma che ci fai qui?, perché solo sei mesi prima te ne sei andata che sembrava dovessi trasferirti dall'altra parte del mondo e invece è tutta una questione di tempistiche, ammalarsi di passaggio da quella che sei mesi fa era la tua città e aver bisogno di una farmacia. Compri le pillole per la gola, quelle per il mal di testa, lo sciroppo per la tosse ma senza codeina che con l'asma meglio di no, poi le pastiglie effervescenti per la febbre e i dolori. Vuoi un sacchetto?, chiede Celeste e tu dici sì perché ti sembra di aver fatto la spesa. Ti abbraccia, cari saluti, stai bene, curati. Quando esci da lì la neve si è fermata ma l'aria è impietosa, non hai il coraggio di andare a casa a piedi, vorresti prendere il bus ma anche aspettarlo ti fa sentire in quel modo, come si chiama, di quando non vuoi fare una cosa ma l'alternativa ti suona anche peggio. Stai guardando la strada pensando al da farsi, quante volte ci sei passata da lì. Quella volta che X ti ha dato un passaggio e sembrava che dovesse baciarti da un momento all'altro ma poi ha detto Tu metti soggezione, e non se l'è sentita. Dopo si è pentito ma ormai era tardi ché la vita è fatta di momenti, quello giusto e poi tutti gli altri. Ti piacerebbe chiamarlo per rivedere le sue braccia nodose, i suoi occhi e quei denti ma a che servirebbe? Non fai più parte di questo mondo. Decidi di fartela a piedi che tanto peggio di così può venirti poco. Il vento ti brucia nel naso fino alla gola, ti nascondi nei capelli e nella sciarpa. Prendi la scorciatoia per il bosco come Cappuccetto Rosso tanto tutte le mattine andavi a correre lì e il lupo cattivo non c'è. Passi vicino alla M/A, era il 2 febbraio quando Y ti ha invitata a bere una birra e ti ha detto Come vorrei parlare la tua lingua, anche se poi un modo per comunicare lo avete trovato lo stesso. Quella volta che ti ha chiesto di sposarlo, per esempio, lo hai capito benissimo e lui ha capito benissimo quando gli hai detto di non cercarti più. Tanto poi per dimenticarti se n'e andato in Africa e non hai mai più risposto alle sue lettere. Arrivi fino al ponte dove ti hanno buttata fuori dalla macchina quasi in corsa dicendo che eri la persona peggiore del mondo e tu sei andata dalla tua amica per piangere con lei che ha pianto tanto con te, e guardarla vivere la sua nuova vita e il suo nuovo pancione e tutti i nuovi ormoni che le erano toccati due mesi dopo aver incontrato un nuovo uomo da sostituire al vecchio. Tipo una permuta. Ora lui anche si è risposato con una giornalista di Mosca che ha detto di voler vivere lì anche se lui vive qui, nella casa dove viveva con la tua amica. Perché la gente ha delle storie assurde ed è questo che ti piace, vorresti sentire tutte le storie ma una vita sola non è abbastanza. Mentre cammini guardi la neve, ammettiamolo che quel bianco ti era mancato. Ti senti che ancora non sei dove dovresti essere, non è ancora la tua città né la tua vita. Dopo sette traslochi non sei più sicura che riuscirai trovarlo, questione di numeri - e di occasioni ché a questa età il grosso ormai è fatto. Lungo la strada hai già fatto fuori tre o quattro di quelle pillole che ti hanno dato ma non sembrano fare grande effetto, forse non ti sei spiegata bene su quanto ti senti male. E ti senti male, tanto. Forse dovresti prenderle tutte, in un colpo solo, mandarle giù con un po' di neve. Forse dovevi prenderle prima, la settimana scorsa, quando hai iniziato ad avere i primi sintomi, perché alla fine la vita è un questione di fare le cose al momento giusto e non le si può rimandare finché non sono gravi e credere che il risultato sia lo stesso.
anche se queste parole stessero entrando nella vostra vita all'ora di pranzo di uno scialbo giorno feriale, non posso che augurarvi la buonanotte. Perché è notte fonda intorno a voi, non vedete? Come chiamare il razzismo non più strisciante, ormai manifesto e fiero, che riempie i blog, i giornali, i vostri account social, la televisione a tutte le ore, se non "notte fonda"? Come chiamare il sessismo da patata bollente, il disgustoso tentativo di contrastare le presunte volgarità dell'Altro con la sicura volgarità nostra, anzi vostra, se non "notte fonda"? Come definire il classismo becero e infame, l'ostentazione impudica della "riccanza" - di dice così, giusto? - , la colpevolizzazione dei lavoratori in sciopero invece che dei padroni che li hanno costretti a scioperare, la stomachevole alternativa tra lo schiavismo del precariato e la disoccupazione ad libitum, se non "notte fonda"?
Eppure io amo la Notte, nonostante tutto.
La amo da quando ero adolescente e nel silenzio di una cameretta come tante altre, tra le coperte accartocciate e le ombre arrampicate sul soffitto, scrivevo i miei primi versi.
Amo le notti costellate di baci al gusto di birra. Notti che sospirano d'erba, che ansimano orgasmi nei parcheggi delle palestre. Notti passate a disegnare l'umidità dei vetri, mentre la radio passava un indimenticabile ultimo blues.
Amo la Notte. La amo persino quando è fonda.
Perché finirà sempre in un'Alba.
Un'alba che sarà l'ultima.
Per voi, o per me.
Punti i pugni sul lavandino. Ti appoggi di peso, quasi volessi farlo sprofondare nel bagno di quel vecchio cacacazzi del piano di sotto. Solo quando ne trovi la forza, alzi lo sguardo verso lo specchio.
Qualche ruga corre allegra sotto gli occhi. E’ anarchia totale, tra i peli ispidi della tua barba incolta. La carnagione bianca come il marmo, come la neve sporca davanti agli hotel di lusso a Cortina, come il foglio dove non hai il coraggio di trasformare in inchiostro i tuoi pensieri malati. Macchie di rosso qua e là. Sfoghi di rabbia che battono sottopelle, bocconi amari masticati e inghiottiti tante di quelle volte che ormai sono solo grumi di succhi gastrici.
Mentre gli occhi ancora abbottonati fissano con sdegno la figura riflessa, nella testa riecheggia la stessa domanda di sempre.
Quante altre volte ancora?
Quante altre volte ancora dovrai svegliarti al mattino vergognandoti di ciò che è successo la notte precedente?
Quante altre volte ancora dovrai soccombere alle tue dipendenze, a quei bisogni malati che ti accarezzano la mente e la rendono poltiglia da dare in pasto ai ratti che corrono nei vicoli nel tuo inconscio?
Quante altre volte ancora dovrai sentire l’unghia del rimpianto entrare tra le piaghe dei tuoi fallimenti?
Quante altre volte ancora dovrai salire sulla giostra delle buone intenzioni e sentire la cintura di sicurezza sganciarsi proprio sul ciglio del giro della morte, facendoti precipitare contro questa realtà di terra, sassi e cadaveri di sogni?
Quante altre volte ancora dovrai offendere quel riflesso, sputargli addosso, maledirlo in eterno senza trovare una reazione? O una soluzione?
Non ti sei mosso di un millimetro, ma sei sfinito. Il cervello bolle, ma non esce nulla di buono. Mentre lanci l’ultima occhiata avvelenata all’ombra di te stesso, concludi come sempre chiedendoti: Quante altre volte ancora si ripeterà questa scena?
È una notte di fredda pietra, e non c'è pace che culli placida il sonno che si nasconde tra le pieghe del cervello.
Immergo le dita nei miei pensieri e trovo melma verde che rimane incollata e si secca addosso, tutto il presente si dilata deformandosi ed accartocciandosi come carta sopra la fiamma, per poi spegnersi in volteggi di fumo e morire in una danza senza materia.
Un istante ripetuto all'infinito. Un tempo del presente che stenta a diventare futuro. Una coniugazione verbale mancata, un vicolo cieco dell'evoluzione, le lancette dell'orologio battono con stillicidio i loro secondi che si tramutano in ore, giorni, mesi, e nulla cambia, nulla cambia, ed è sempre il ripetersi dello stesso atto a cui molti applaudono e qualcuno fischia, si apre e si richiude il sipario, mentre giorno dopo giorno il sorriso si sfigura, si incrina, un impercettibile cedimento lento, e di notte mi alzo all'improvviso, con il fiato che mi manca, e mi ripeto che esisto, esisto, io esisto, lasciatemi stare, lasciatemi vivere.
Lasciatemi credere che le cose nel futuro cambieranno.